La gioventù perduta dalla Siria alle fabbriche di Hanoi
Cinema Al Festival di cinema Africano di Milano i documentari di Parsifal Reparato e Talal Derki e l’esordio di Tiago Melo, «Azougue Nazaré»
Cinema Al Festival di cinema Africano di Milano i documentari di Parsifal Reparato e Talal Derki e l’esordio di Tiago Melo, «Azougue Nazaré»
Una catena di montaggio per sole donne: «Puoi lavorare velocemente, senza perdere la concentrazione, senza stancarti o fare domande?». Sono questi i requisiti per lavorare nella fabbrica dove si assemblano le macchine fotografiche Canon a Hanoi, oltre alle dita sottili e agili che danno il titolo al documentario di Parsifal Reparato – Nimble Fingers – girato fra delle factory workers poco più che adolescenti che dalla provincia rurale del Paese sono giunte a vivere e lavorare nella capitale del Vietnam.
Con le loro mani rapide e precise «apprezzate» da chi produce tecnologia le donne sono l’80% degli operai che lavorano nelle fabbriche della città, anche se – ci spiega il film, presentato in questi giorni nel concorso Extr’a del Festival Africano, dell’Asia e dell’America di Milano – la maggior parte di loro non potrà sostenere questa occupazione per più di cinque anni: il deterioramento psicologico e fisico è troppo e i giorni liberi al mese soltanto uno, pena tagli salariali o addirittura il licenziamento.
Il regista ci mostra le ragazze nelle abitazioni che condividono – possono permettersi l’affitto solo se fanno gli straordinari, in una filiera dello sfruttamento studiata in ogni particolare – nel giorno libero passato facendo una gita sul fiume o durante una rapida visita a casa, in campagna.
Ma alle telecamere non è consentito entrare in quell’ambiente che è poi l’altro protagonista – in assenza – del film e dei discorsi fra le giovani: il posto di lavoro, che «appare» solo nelle divise delle protagoniste e nelle sequenze di animazione della catena di montaggio e della fabbrica che mostrano le immagini «proibite» di quei luoghi nei quali, per un magro stipendio, le vietnamite (e non solo) che non possono aspirare a un’educazione scolastica superiore consumano rapidamente la loro gioventù.
In Brasile, nella piccola cittadina di Nazaré da Mata, è ambientato invece un film radicalmente diverso, una celebrazione della vitalità del carnevale brasiliano – anche nelle piccole cose di tutti i giorni.
È l’opera prima di Tiago Melo: Azougue Nazaré, presentata nel concorso lungometraggi al Festival milanese dopo il debutto a Rotterdam. Protagonista è qui una piccola comunità brasiliana nella sua quotidianità fra tradimenti, incomprensioni coniugali, giornate sulla spiaggia tra amici e soprattutto la preparazione del carnevale da parte del nutrito gruppo cittadino che pratica il maracatu: una tradizione afro-brasiliana risalente ai tempi della schiavitù e fondata sull’improvvisazione di versi al ritmo di samba.
L’inquietudine che qui incombe sui protagonisti non ha tanto a che fare con le misteriose sparizioni di alcuni abitanti della cittadina, quanto con lo zelo bigotto della comunità evangelica locale, guidata da un pastore improvvisato che vede il maracatu e il suo magnifico sincretismo come uno strumento del demonio.
Il fanatismo – in tutt’altra accezione e senza l’ironia di Azougue Nazaré – è il «protagonista» anche del documentario Of Fathers and Sons di Talal Derki, vincitore del Gran premio della Giuria del concorso World Documentary al Sundance 2017.
Il regista – siriano che vive a Berlino dal 2014 – lo gira infatti nel corso di due anni in cui torna nel suo Paese martoriato dalla guerra: fingendosi un reporter filo jihadista segue una famiglia di Idlib, guidata dal generale di Al-nusra Abu Osama. I tre figli piccoli, che prendono tutti il nome da «eroi» jihadisti come Osama bin Laden o Ayman al-Zawahiri, hanno abbandonato la scuola e cominciano presto il loro addestramento alla guerra.
Il coraggio di Derki e il suo intento sulla carta apprezzabile – osservare l’insinuarsi di un male oscuro nelle vite e nelle menti di bambini innocenti – è però viziato dall’impressione, fin dalle prime sequenze – in cui i tre figli comunicano fieri al padre di aver massacrato un uccellino come lui aveva fatto pochi giorni prima con un infedele – che il regista non sia andato a scoprire il nuovo terribile volto del suo paese ma (consapevolmente o meno) a dimostrare una tesi, a raccontare un copione già scritto e in nessun modo destabilizzante per le certezze del pubblico: il romanzo di formazione dei mostri di domani.
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