Internazionale

La Giordania minaccia l’Isis ma poi riduce i raid aerei

La Giordania minaccia l’Isis ma poi riduce i raid aereiLa foto del pilota al-Kasasbeh, rapito dall'Isis a dicembre – Reuters

Stato Islamico Amman alza la voce: «Uccidete il nostro pilota e noi giustizieremo tutti i vostri prigionieri». Cresce l'insofferenza nel paese, strategico per l'agenda politica Usa in Medio Oriente. In Iraq gli islamisti attaccano Kirkuk, Baghdad e Samarra

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 31 gennaio 2015

«Uccidete il nostro pilota e noi giustizieremo tutti i vostri prigionieri». La Giordania alza la voce, un giorno dopo la scadenza dell’ultimatum posto dallo Stato Islamico per lo scambio tra il militare giordano al-Kasasbeh e la qaedista Sajida al-Rishawi. Il califfato pare chiudersi nel silenzio, evitando di rispondere alla pressante richiesta di Amman: dateci le prove che il pilota è ancora vivo e procederemo allo scambio.

E se il negoziato resta in sospeso, a parlare sono le intimidazioni: ieri il governo giordano avrebbe minacciato il califfo di eseguire la condanna a morte che da dieci anni pesa sulla testa della al-Rishawi e di giustiziare altri membri dell’Isis detenuti nelle carceri giordane, se al-Kasasbeh venisse ucciso. Secondo fonti interne, il messaggio è stato recapitato all’Isis, seppure manchino conferme ufficiali. Altre fonti, però, parlano di una reazione ben diversa da parte di Amman: secondo l’Independent, i raid aerei giordani contro postazioni dell’Isis sarebbero radicalmente diminuiti.

Ad Amman, in ogni caso, sperano che lo stallo si sblocchi presto: cresce l’insofferenza tra i media e l’opinione pubblica, minacciando seriamente la fragile stabilità di un paese che sembrava essere passato indenne dall’ondata di rivolte del mondo arabo, nonostante la quasi totale assenza di riforme interne. I primi segnali di irritazione sono apparsi mercoledì notte quando circa 500 manifestanti si sono ritrovati sotto il palazzo reale intonando slogan contro re Abdallah.

Buona parte dei giordani ritiene il governo responsabile di averli trascinati in una guerra che non gli appartiene, una guerra al terrore che poco ha a che vedere con Amman. Non è così: la Giordania, dopo l’Arabia Saudita e la Tunisia, è il paese dal quale proviene il maggior numero di jihadisti stranieri membri dell’Isis (che prima o poi tornano a casa) e il favore verso il califfato – seppur ancora poco visibile – cresce nel sottobosco dei gruppi salafiti o più radicali. A ciò va aggiunto il fatto che la Giordania è un paese povero di risorse idriche e energetiche (a differenza dei vicini da cui in parte dipende), con un conto costantemente in rosso su cui pesa ora anche il milione e mezzo di rifugiati siriani e la crescita del tasso di inflazione dovuto ai profughi “consumatori”.

A risentirne potrebbe essere proprio la tradizionale stabilità di un paese strategico per la sua posizione (tra Siria, Iraq, Arabia Saudita e Israele, con cui ha siglato la pace nel 1994) e per gli interessi occidentali nella regione. Gli Usa hanno sempre considerato la monarchia hashemita una delle colonne portanti dell’agenda politica di Washington in Medio Oriente: solo nel 2014 è piovuto nelle casse di Amman un miliardo di dollari in aiuti economici e militari.

Gli Usa guardano alla Giordania come alla zona cuscinetto tra Israele e il resto del mondo arabo e tra i paesi sunniti del Golfo e l’asse sciita Damasco-Teheran. Con lo scoppio della guerra civile siriana e l’immediato sostegno garantito alle opposizione moderate, Amman è stata per l’Occidente la zona di contenimento di un’eventuale espansione della crisi siriana, un ruolo polverizzato dall’avanzata dell’Isis nella regione

Il timore di un contagio dei settarismi esterni dentro il paese o l’infiltrazione dell’Isis o di gruppi vicini al califfato potrebbe fare da miccia alle tensioni rimaste latenti per decenni e intensificatesi negli ultimi anni, quelli della guerra civile siriana. Tensioni che prima re Hussein e poi suo figlio Abdallah hanno saputo tenere a bada con il pugno di ferro e dando vita ad una rete di potere ramificata, gestita dall’alto ma distribuita tra le varie tribù. Potere, poltrone e denaro in cambio dell’assenza di caos.

Un caos che ancora regna in Iraq: dopo la perdita della provincia di Diyala a favore dell’esercito governativo, il califfato ha lanciato una nuova offensiva. Ieri una serie di attentati suicidi a Baghdad, Samarra e Kirkuk ha ucciso almeno 21 persone e ne ha ferite 105. Nella capitale target degli attacchi sono stati gli edifici governativi nel quartiere di Bab al-Sharqi, mentre a Samarra due kamikaze si sono fatti esplodere ad un checkpoint in centro.

Kirkuk sono state colpite in quattro diversi distretti le forze militari kurde che da luglio hanno assunto il controllo di una delle città più ricche di petrolio del paese, strappandola a quella ufficiale di Baghdad. L’assalto è cominciato giovedì notte con l’artiglieria pesante: sei peshmerga sono stati uccisi, tra loro un alto ufficiale. Da ieri mattina è in vigore il coprifuoco, fino a nuovo ordine.

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