La Gioconda di Amilcare Ponchielli ebbe la sua prima assoluta alla Scala l’8 aprile 1876; per più di settant’anni apparve regolarmente nel cartellone del Teatro milanese, fino al 1952, quando, diretta da Antonino Votto, Maria Callas debuttò nel ruolo del titolo, azzerando d’un colpo, con la forza della sua interpretazione e del mito che i decenni successivi crearono attorno alla diva, la tradizione precedente. Per vedere ancora La Gioconda il pubblico scaligero dovette aspettare fino al 1997, quando Eva Urbanova, diretta da Roberto Abbado, si misurò col modello e ne restò schiacciata. Poi venticinque anni di vuoto e finalmente in questi giorni l’opera di Ponchielli, in vero non facile da allestire, richiedendo sei prime voci solide, coro, corpo di ballo e allestimenti scenici complessi, torna alla Scala. Nel ruolo della protagonista avrebbe dovuto debuttare Sonya Yoncheva, che ha dato forfait ed è stata rimpiazzata da Saioa Hernández, in alternanza con Irina Churilova, sotto la direzione di Frédéric Chaslin.

CON LA SUA VOCE potente, ben proiettata in acuto, passaggi di registro impeccabili, timbro omogeneo dal centro all’acuto e un po’ aspro nel grave, la Hernandez tratteggia una Gioconda che, a discapito del nome, lascia subito deflagrare il dramma interiore della donna tradita. Stefano La Colla ha uno strumento vocale interessante, un timbro dolce che a tratti ricorda quello di Beniamino Gigli, acuti facili, ma un fraseggio generico, forse per essere subentrato all’ultimo minuto a Fabio Sartori, senza il tempo necessario per impadronirsi del ruolo di Enzo, tratteggiato come un generico amoroso. Roberto Frontali, in difficoltà negli acuti e un po’ impacciato nell’interpretazione, tratteggia un Barnaba cattivo di maniera. Con la consueta disinvoltura scenica e una voce pastosa e tonante dal grave all’acuto, Erwin Schrott lascia il segno nella parte di Alvise, marito tradito che manda a morte la moglie. Daniela Barcellona, come sempre scenicamente generosa, offre al ruolo di Laura una voce affaticata, disomogenea nel timbro e nei passaggi di registro.

Con la sua voce potente, Hernandez tratteggia una Gioconda che, a discapito del nome, lascia subito deflagrare il dramma interiore della donna tradita.

OTTIMA Anna Maria Chiuri nel ruolo della Cieca, madre pietosa della Gioconda e inconsapevole responsabile della sua rovina, attraverso un meccanismo di ironia tragica simile a quello del verdiano Rigoletto, anch’esso peraltro adattamento di un dramma di Victor Hugo. La direzione di Chaslin, specialista del repertorio francese ma poco avvezzo alla tradizione lirica italiana, risulta deficitaria quanto al ritmo che serve a trasformare l’azione complicata e sfilacciata del libretto in dramma e a dominare la partitura disuguale di Ponchielli, che forza nella struttura del grand opéra francese sottigliezze armoniche di ispirazione wagneriana, melodismi di ispirazione romantica e vocalismi veristi. Interessanti alcuni suoi isolati rilievi cromatici, come quelli del preludio. Davide Livermore si conferma l’unico regista in circolazione in grado di sfruttare tutte le fantasmagorie rese possibili dal palcoscenico della Scala, trasformato una ventina di anni fa grazie a lavori e investimenti assai cospicui: l’azione complessa del libretto viene ridotta a una sorta di minimo gestuale, la Venezia torbida e convulsa che le fa da sfondo viene schiarita a poco più che un ologramma, grazie anche alle scene di Giò Forma, che spogliano le esotiche architetture veneziane di ogni decorazione, riducendole a moduli intercambiabili di una macchina perfettamente razionale: assai suggestiva la scena in cui Alvise insegue Laura nel labirinto del suo palazzo.