La Germania nazista nel romanzo bocciato dall’amico Lukács
Torna, da Superbeat, il romanzo «La settima croce» Ebrea tedesca iscritta al KPD, Anna Seghers pubblicò in esilio il suo capolavoro: troppo psicologico e naturalista per il grande critico ungherese
Torna, da Superbeat, il romanzo «La settima croce» Ebrea tedesca iscritta al KPD, Anna Seghers pubblicò in esilio il suo capolavoro: troppo psicologico e naturalista per il grande critico ungherese
Le sue ultime immagini negli anni settanta arrivavano ieratiche, glaciali e in tutto simili alle mummie che le sedevano accanto durante le adunanze ufficiali di un Partito comunista impenetrabile, quello della DDR o Repubblica Democratica Tedesca. Si stentava a immaginare che la donna dai capelli candidi, senza mai un sorriso, seduta vicino a Walter Ulbricht, fosse davvero Anna Seghers, la grande scrittrice già amica e compagna di via di Bertolt Brecht, di Hanns Eisler e György Lukács, ora invece assisa (come pure la vedeva un altro amico, Heinrich Böll) tra «falsi fratelli» e cosiddetti compagni, per giunta da decenni firmataria di mattoni illeggibili e di pronunciamenti dogmatici nonché da ultimo, nel ’76, pubblica accusatrice di Wolf Biermann, poeta e chansonnier cacciato dal suo paese quale canaglia anticomunista ed eretico vitando. Eppure Anna Seghers era stata proprio Anna Seghers e per molti, persino a malincuore, continuava a esserlo, vale a dire una ormai ex autrice e però straordinaria, la stessa che aveva scritto due o tre opere cruciali della letteratura tedesca anteguerra ed essenziali per la formazione degli intellettuali antifascisti di tutta Europa nel dopoguerra, fra cui, portato al successo dalla omonima pellicola di Fred Zinnemann con Spencer Tracy nel ’44, il romanzo La settima croce, che oggi torna in una nuova e limpida versione di Alessandra Petrelli dopo decenni di assenza (postfazione di Thomas von Steinaecker, Superbeat, pp. 331, euro 16,50). Già pubblicato nella «Medusa» Mondadori nel ’47, per la versione di Eusebiu Vicol, la sua ultima riproposta era stata negli «Oscar», 1981, accompagnata da una prefazione, critica ma molto partecipe, di Italo Alighiero Chiusano, che ne lodava la capacità di restituire in essenza la vita quotidiana in Germania sotto Hitler e specialmente di cogliere come «la tabe nazista avesse infettato ogni più innocuo aspetto della vita familiare e privata».
La settima croce non è un esordio ma, semmai, un’ordinata massima. Anna nasce a Magonza come Netty Reiling in una famiglia borghese di ebrei e studia a Heidelberg dove si laurea nel 1924 con una tesi in Storia dell’arte (di recente pubblicata anche in Italia: L’ebreo e l’ebraismo nell’opera di Rembrandt, a cura di Vincenzo Pinto, Giuntina 2008); dopo avere aderito al Partito comunista tedesco (KPD) e avere adottato come pseudonimo il cognome di un incisore olandese del Seicento, nel ’28 esordisce con il romanzo che molti tuttora ritengono un capolavoro, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara (Einaudi 1949), un’opera corale, la storia di uno dei primi scioperi dei pescatori poveri del Mare del Nord dove, nei crudi chiaroscuri e nel montaggio di un testo che pure si vuole integralmente realista, si avvertono comunque gli esiti di una educazione segnata dall’espressionismo letterario e cinematografico.
Ma la sua opera maggiore fiorisce nel ventennio più difficile, il successivo. Arrestata nel ’33, ripara in Francia (nel ’35 è Parigi e prende parte al congresso antifascista dell’AEAR per la difesa della cultura, al Palais de la Mutualité, nel ’37 tiene un comizio antifranchista a Madrid, in piena guerra civile) per approdare in Messico nel ’41 dove redige il trittico che le dà la fama: appunto La settima croce (steso in Francia, esce in inglese a New York nel ’42, solo l’anno dopo a Città del Messico in tedesco e in edizione limitata), poi un secondo romanzo ispirato alle vicende dell’espatrio, Transit o Visto di transito (’44), infine il racconto lungo del ’46 La gita delle ragazze morte, gemma della sua bibliografia, un sogno spettrale che è insieme il ricordo autobiografico di un mondo giovanile tanto più struggente e squisito quanto più fatalmente vocato all’annientamento e all’oblìo (ora con testo a fronte, a cura di Rita Calabrese, nell’edizione Marsilio 2010).
Fresca di stampa, dunque Anna Seghers spedisce copia de La settima croce a Lukács che si trova a Mosca in condizione di semicattività e sta approntando il più classico dei suoi testi didattici, Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi (poi nella versione di Cesare Cases, Einaudi 1956); il filosofo accoglie il romanzo con molta cautela, anzi apertamente le imputa di avere mancato il realismo socialista troppo indulgendo a uno sguardo naturalista, ma non manca di inserirne la menzione nelle ultime righe del suo manuale: «Eppure anche essa non va molto al di là della descrizione di situazioni sensibili o psicologiche, in cui peraltro si rivela la sua non comune energia plasmatrice. Le cause profonde della lotta, il suo significato storico-sociale così come si sviluppa da esperienze, circostanze e conflitti individuali, restano anche qui celati da un velo: velo che ha pur tuttavia un alto valore estetico». In effetti, La settima croce contamina ancora una volta lo sguardo oggettivo, vitreo, con gli andirivieni spazio-temporali e gli incastri che furono dell’avanguardia. 1936, Westhofen, un Arbeitlager di detenuti politici governato da un paranoide che lì ha fatto erigere, dopo avere scatenato la caccia all’uomo, sette croci cui appendere altrettanti evasi dal campo: sei verranno catturati e in quel modo giustiziati, solo uno riuscirà a scamparla, per una sopravvenuta e impensabile solidarietà, aprendo virtualmente uno squarcio nella tenebra che avvolge la Germania hitleriana. Gremito di effigi e di tipi umani, di vicende minime dell’esistenza come di emblematiche occasioni della vita sociale, La settima croce è un romanzo che paradossalmente, proprio dalla vivacità e varietà delle psicologie e delle tipologie, sa dedurre il colore unico, la tinta uniforme in grigio incombente e asfissiante, di quella che fu detta, prima e dopo il nazismo, Deutsche Misere, appunto la «miseria tedesca», il combinato omicida di candore e filisteismo, di ipocrisia e torpida brutalità.
Quanto a ciò, La settima croce ha ancora da dire qualcosa al lettore di oggi. Lei, Anna Seghers, tornando dall’esilio nel ’47, porta il romanzo e il suo successo internazionale in dote alla neonata Repubblica Democratica tedesca, ma è una donna troppo debole o stanca o irretita per rifiutare certi omaggi (un posto all’apice della Nomenklatura, addirittura un Premio Stalin nel ’51) e nel frattempo è troppo lucida per non rendersi conto di avere patteggiato con un regime tirannico e in sostanza abiurato dalla sua vocazione di artista e di intellettuale, quasi fino all’autocancellazione. (E poi non disponeva né della ironia né delle astuzie nicodemiche che avevano permesso all’amico Brecht, se non altro, di barcamenarsi). Quando muore a Berlino Est il 1° giugno del 1983, la Guerra fredda è agonizzante e lei una Pasionaria che da decenni non è più percepita come tale dai lettori europei, specie se giovani e antifascisti. Molti di costoro guardano alla sua immagine canuta con mestizia, sgomento. Christa Wolf, che le aveva voluto bene e che molto le doveva, ricordandola nel centenario della nascita (il testo dell’orazione è in appendice al racconto giovanile della Seghers Jans deve morire, a cura di Marina Pugliano, edizioni e/o 2003), rammenta che Anna soprattutto negli ultimi tempi ripeteva questa frase: «Non è poi così facile rispettare i sogni della propria giovinezza». Era il suo oroscopo e, verosimilmente, lei lo sapeva.
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