Non è stata colpa dell’eroina, anzi, l’eroina è stata la vita artificiale di uno zombie che negli ultimi anni avete visto circolare. Ero già morto. L’ero è stata una resurrezione artificiale». Sono parole di Carlo Rivolta, la figura perno del film documentario di Marco Turco La generazione perduta, vincitore del Nastro d’argento per il miglior documentario dell’anno e in sala in tutta Italia in questi giorni.
Carlo Rivolta era un giornalista di «Repubblica». Giovane, bello, fascinoso, curioso in modo assoluto, fu il primo a indagare e raccontare l’espansione dell’eroina, le sue cause, gli effetti, il mercato, un fenomeno che in pochi anni annientò una generazione di giovani. Erano gli anni Settanta, il lungo Sessantotto stava esaurendo la sua carica rivoluzionaria, molti furono i delusi e gli sconfitti. Dell’eroina si sapeva poco, in tanti ci cascarono, tanti ne morirono. Marco Turco da tempo voleva realizzare un film su quell’oppioide ottenuto per acetilazione della morfina. «Mi sono immerso negli archivi e – racconta – visionando una mole e orme di servizi giornalistici, articoli, réportage mi sono imbattuto nella storia di Carlo Rivolta che è emblematica».Fra le vicende quella emblematica del giornalista Carlo Rivolta

La redazione consiglia:
Marco Turco, Carlo Rivolta e «La generazione perduta»EMBLEMATICA in molti sensi, per la vicenda personale di Rivolta che, volendo indagare dal di dentro il fenomeno della diffusione dell’eroina, finì per diventare lui stesso un consumatore sviluppando una dipendenza che lo porterà alla morte. Emblematica perché rappresenta un modo di fare giornalismo che è di pochi, da vero insider che scava per capire la radice del danno e, con essa, le convenienze del mercato degli stupefacenti che in pochi anni sostituì l’eroina a cannabis e hashish, molto meno convenienti. Emblematica perché i suoi articoli sbugiardavano l’ottusità dei politici che non vollero vedere, scelsero di non capire che cosa si doveva e poteva fare, equiparando droghe leggere e pesanti, incarcerando gente solo perché aveva in tasca pochi grammi di marijuana, buttando tutto su punizione e repressione. È un atteggiamento che ci portiamo ancora dietro.
La storia di Rivolta è anche emblematica di un periodo storico che lega il consumo dell’eroina alla sconfitta politica di una generazione, alla grande disillusione dopo la rivolta (che singolare coincidenza, quel cognome). C’è, nel film, la testimonianza di una ragazza che dice: «Certo, potrei disintossicarmi e iniziare il recupero. Ma che cos’è il recupero? Per fare quale vita? Per far parte di quale società? Per essere utile a chi? Se devo recuperarmi per diventare un ingranaggio che sottostà a un sistema che mi vuole buona e obbediente, allora non mi interessa».
SEGUENDO la vicenda di Carlo Rivolta, il film racconta un periodo storico e lo fa montando immagini d’archivio, testimonianze di ieri accanto a interviste di oggi. C’è Emanuela Forti che fu compagna di Rivolta, colleghi che lo conoscevano bene, amici. Poi ci sono giovani, soprattutto donne, che raccontano perché si fanno, come hanno cominciato, come hanno cercato di uscirne. Fra il ieri e l’oggi, ovvero fra gli spezzoni d’archivio e le interviste attuali, netta, e voluta, è la qualità delle immagini. Sgranate, a volte leggermente fuori fuoco, come nebbiose, le scene delle città, dei quartieri, del morto trovato dentro un’ auto, dei ragazzi che si bucano per strada, delle manifestazioni, delle contestazioni degli anni Settanta. Vivide, invece, sono le luci e i colori delle interviste attuali, come a voler marcare la nebulosa che copre quel periodo e gli eventi che lo marcarono.

IN MEZZO, enorme come un buco di angoscia, c’è la consapevolezza che, terminato il momento in cui si sperava di poter cambiare il mondo, nulla ha più senso, nemmeno la vita. È in quel buco che molti si sono perduti, oscillando fra la consapevolezza che si stavano ammazando e l’incapacità di venirne fuori perché, come scrisse lo stesso Rivolta, «Per disintossicarsi serve uno scopo importante, capace di farti sfidare la morte».