La gaia scienza degli Ogm
Non è la prima volta che scienziati e studiosi di varia formazione, perorano la causa degli Ogm in nome della razionalità scientifica, contro la diffusa superstizione popolare che li teme. […]
Non è la prima volta che scienziati e studiosi di varia formazione, perorano la causa degli Ogm in nome della razionalità scientifica, contro la diffusa superstizione popolare che li teme. […]
Non è la prima volta che scienziati e studiosi di varia formazione, perorano la causa degli Ogm in nome della razionalità scientifica, contro la diffusa superstizione popolare che li teme.
Umberto Veronesi in primis, ma anche Edoardo Boncinelli e Giulio Gioriello, per citare i più illustri, lo hanno fatto in passato in varie occasioni. Ora ripropongono il motivo, con un di più di confusione, Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini (Quelle mistificazioni sugli Ogm, La Repubblica, 9/4/2014).
I due studiosi aprono un fronte polemico contro alcune forme di atteggiamento antiscientifico diffuse nel nostro paese, quali la difesa del metodo stamina, i sospetti contro il vaccino trivalente, considerato possibile causa di autismo nei bambini, la lotta contro la sperimentazione condotta sugli animali, l’omeopatia e infine gli Ogm. Francamente mi pare troppo, anche per chi, come me, lamenta la scarsa popolarità delle conoscenze scientifiche nel nostro paese. Che cosa c’entra l’opposizione contro gli Ogm con tutte le questioni precedentemente elencate? Non è questo un modo poco scientifico di svalutare un atteggiamento di razionale cautela associandolo a convincimenti di tutt’altra natura? Cautela scientifica, perché gli Ogm sono un prodotto di laboratorio approdato alla storia umana solo da pochi anni. È poco scientifico cercare di far passare questa frattura biologica come una continuità storica, affermando, come spesso si fa, che i contadini hanno sempre manipolato le piante per migliorarle. Sono uno storico dell’agricoltura e so bene quanto lavoro selettivo ha permesso agli agricoltori di «costruire» il patrimonio di biodiversità agricola di cui disponiamo. Ma le selezioni compiute nei millenni dai contadini e dagli agronomi di oggi si sono mosse e si svolgono tutte dentro il regno vegetale. Gli Ogm di cui parliamo e di cui parlano gli autori, ossia, soprattutto mais bt e soia round up, commercialmente i più importanti, sono piante create tramite un salto di specie o comunque un innesto transegenico. Nel mais Bt è stato inserito materiale genetico prelevato dal Bacillus Thuringiensis (Bt), un batterio presente nel terreno, che difende il mais dai danni della piralide. Mentre la soia transgenica, creata dalla Monsanto, resiste a un potente erbicida, il glisofate.
Scrivono gli autori: un «documento pubblicato l’anno scorso dall’European Academies Science Advisory Council… sulle sfide e le opportunità delle piante geneticamente migliorate dice esplicitamente che gli ogm non sono dannosi per l’ambiente e non attentano alla sicurezza alimentare» E anzi «possono ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura». Non conosco l’autorevolissimo documento – ne circolano tanti, sia contro che pro Ogm – ma le affermazioni non sono per nulla convincenti o sono smentite da un’ampia letteratura. Intanto, diciamo che c’è differenza tra piante «geneticamente migliorate» e Ogm. Il «miglioramento» delle piante condotto da genetisti, biologi e agronomi – sia pure con metodi diversi – prosegue la storia millenaria dei contadini e contribuirà in futuro a limitare l’inquinamento chimico nelle campagne. Ma non è così per gli Ogm di cui parliamo. La coltivazione della soia round up è associata all’uso di un veleno che si disperde nel terreno, inquina le falde, è sospettato di produrre tumori negli agricoltori. E’ noto perfino agli scienziati della Monsanto che le piante transgeniche disperdono il loro polline nell’ambiente, interagendo in modo ancora del tutto ignoto con le altre piante, con gli insetti, gli uccelli, i microrganismi del terreno, insomma con gli equilibri generali dell’ecosistema. Che cosa può accadere nel tempo al vasto patrimonio della biodiversità agricola?Nessuno lo sa. Nessuno fa ricerche e investe risorse in tale ambito. Mentre gli scienziati che hanno influenza e voce sui media sono impegnati a fare la pubblicità agli Ogm.
Sul piano alimentare, i cibi contenenti Ogm sembrano non dare problemi. Non viene il mal di pancia a mangiare una pannocchia di mais bt. Ma che cosa può succedere con il tempo, in caso di assunzione continuata, negli animali e nell’uomo, in seguito alle interazioni che il principio attivo del batterio Bt può innescare nei batteri dell’intestino ? Se io oggi sbriciolassi in aria un pugno di polvere di amianto e la respirassi non farei neppure uno starnuto. Ma fra 10-15 anni le probabilità di contrarre il cancro della pleura o il blastoma ai polmoni sarebbe elevatissimo. Non sarebbe dunque saggio rispettare il principio di precauzione, adottato dall’ Unione Europea, oggi sempre più traballante sotto la pressione sistematica delle lobbies? Gli autori lamentano che in Italia, dove gli Ogm sono proibiti, non possiamo produrre «mangimi economicamente competitivi» e li importiamo «ipocritamente» dal Brasile o dall’Argentina. Anche in questo caso la perorazione della libertà della scienza, associata alla sacra «crescita economica» fa prendere degli abbagli ai nostri autori. Ma hanno idea i due studiosi di che cosa significa la coltivazione di soia in Brasile e in Argentina? Sterminate aziende con coltivazioni interamente meccanizzate, e assoggettate alla chimica per tutte le fasi della produzione. Come potrebbe mai competere l’agricoltura italiana su questo terreno? E non è piuttosto conveniente, anche sotto il profilo economico, avere soia e granturco non Ogm, cioé piante più sicure, che si presentano sul mercato come un prodotto qualitativamente superiore, se non altro perché non hanno dovuto coesistere con erbicidi e pesticidi devastatori dell’ambiente?
Ma chi ci ha ordinato di inseguire l’agricoltura transgenica, quando noi possediamo un patrimonio di biodiversità agricola unica al mondo, indisgiungibile da una storia millenaria e dai caratteri originali del nostro territorio, dalle forme del paesaggio, dalle tradizioni delle nostre innumerevoli cucine locali? Che senso ha parlare di prodotti e di competizione se non si ha un’idea di che cosa sia il nostro sistema agricolo? Dobbiamo indirizzare la ricerca scientifica alla manipolazione delle piante, per gettare sul mercato nuovi prodotti brevettati, e assoggettare sempre più gli agricoltori all’agroindustria? Oggi sempre più giovani scienziati passano la loro vita in laboratorio, impegnati a manipolare il dna dei semi, senza mai vedere una campagna neppure in gita. E’ questa la ricerca da privilegiare? Non dovremmo studiare le piante nel loro ambiente, nella rete delle loro interconnessioni con l’ecosistema, per produrre beni sempre più sani e sicuri, in un habitat più salubre per tutti i viventi? Non abbiamo il compito di produrre cibo abbondante e sano senza distruggere la casa in cui viviamo?
L’ecologia, vale a dire lo studio degli esseri viventi nel loro habitat, ha aperto un orizzonte del tutto nuovo alle scienze naturali e anche alle scienze dell’uomo. Perché essa consente di vedere la rete di connessioni che lega i vari fenomeni del mondo vivente. Oggi la genetica, per le sue potenzialità manipolative, per la possibilità di ritorni immediati e crescenti che offre all’industria, spinge le scienze della natura nel vicolo stretto del riduzionismo. La curva ascendente dei profitti la trascina verso il basso. Non è perciò corretto rivendicare indistintamente la buona causa della ricerca scientifica in campo transgenico. Questa è una strada, ma non è necessariamente la più consigliabile. E una scelta può pregiudicarne un’altra, più feconda e più utile all’umanità. La storia ci insegna qualcosa in merito. Nei decenni centrali del XX secolo la fisica si è concentrata sullo studio dell’atomo. Nata come scienza di guerra, destinata al genocidio della bomba atomica, essa è diventata la Big Science per creare energia, assorbendo lo studio delle più grandi menti del secolo e concentrando investimenti immensi da parte dei maggiori stati industriali. Ci si può chiedere che cosa sarebbe accaduto se la ricerca si fosse incamminata su un’altra strada, se si fosse studiata l’energia solare? Forse oggi non avremmo di fronte lo scenario del riscaldamento climatico globale che incombe sul nostro avvenire.
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