La gabbia dei reality fiction
Corea del Nord Attrici e registi di Seul rapiti per fare film. E le fughe da un regime basato su insindacabili gerarchie sociali
Corea del Nord Attrici e registi di Seul rapiti per fare film. E le fughe da un regime basato su insindacabili gerarchie sociali
Spesso chi si occupa di Asia rimane stupito per come vengono confezionate le informazioni sulla Corea del Nord. Bufale, notizie macabre, solitamente esecuzioni per un capriccio, vizi e stravaganze dei leader. Si tratta di una narrazione alimentata dalla stessa Corea del Nord: si sa così poco di quel paese, da pensare di potersi lanciare nei meandri più impervi della reality fiction. Tanto sarà difficile essere smentiti. Anche perché nella storia del paese sono accaduti eventi tra il grottesco e il drammatico, che giustificano la possibilità che altri eventi di questo genere possano verificarsi.
Poi ci sono le storie che emergono, che escono spesso insieme alle persone in fuga. E ce ne sono alcune che invece arrivano da fuori, dalla Corea del Sud.
La forza della propaganda
La possibilità di soddisfare ogni capriccio da parte dei membri della dinastia Kim è talmente nota che nessuno ormai si sorprende di fronte a niente. Se uno di loro, appassionato di cinema, ha fatto di questa passione l’«etica» – si fa per dire – immaginifica con cui governare il paese, non sembra esserci nulla di strano. Se questo stesso rampollo, divenuto il «Caro Leader», ha perfino rapito una famosa attrice sudcoreana e un famosissimo regista al di sotto del 38° parallelo, potremmo credere di essere in un limbo tra immaginario e realtà.
Eppure è tutto vero: le vicende del regista sudcoreano (un po’ come se oggi Kim Jong-un fosse un patito del cinema italiano e facesse rapire Sorrentino) Shin Sang-Ok e dell’attrice Choi Eun-Hee sono lo sfondo della vicenda narrata in Una produzione Kim Jong-il, di Paul Fischer (Bompiani, pp. 395, euro 19).
La storia è questa: Kim jong-il il «Caro Leader» quando ancora doveva sottostare al domino del padre Kim il-sung, ha in mente un piano ben preciso e delineato: fare della Corea del Nord un paese all’avanguardia nel mondo del cinema. Vuole successo, premi, riconoscimenti internazionali. Al giovane Kim arriva ogni ben di dio, champagne e prelibatezze culinarie, insieme a grandi macchine, orologi d’oro e vestiti firmati; arrivano anche le pellicole più importanti prodotte in Occidente. Vietate in patria, ma non per lui, che affida a una rete clandestina il compito di reperire tutte le pellicole richieste dal capo. Si tratta del «sistema» che secondo i detrattori sarà poi utilizzato da Pyongyang per trafficare in armi e droga. C’è una cosa sola che a Kim non arriva: il talento.
Nonostante le sue agiografie lo descrivano come una specie di genio del cinema, Kim non ha il talento che gli viene attribuito. Ma il «Caro leader» intuisce che quella lanterna magica può dare potenza alla propaganda del suo regime. Crea immensi studios, dipartimenti, sotto dipartimenti, sezioni, organizzazioni, scova attori, attrici, ma i risultati sono pietosi.
Nel frattempo in Corea del Sud giungono al capolinea artistico un regista e un’attrice che avevano fatto sognare la popolazione. Dopo una tormentata storia sentimentale i due si dividono, persi nel tentativo di rimanere a galla in un mondo che comincia a cambiare rapidamente (il boom della Corea del sud, manovrato da un governo autoritario). E allora Kim ha l’intuizione: rapisce prima Choi e poi Shin, li costringe a un esilio dorato e li obbliga a produrre film e cultura cinematografica per la Corea del Nord.
Qualcosa che prende la mano, perché Shin si sente perfino riabilitato come regista. Choi più a malincuore accetta la nuova situazione e diventa una sorta di insegnante. I due creano anche una casa di produzione. La Corea del Nord vince i primi premi internazionali all’interno dell’universo sovietico. Cominciano i viaggi e ai due sudcoreani Kim permette anche di recarsi all’estero, come testimoni della grandezza artistica del paese. Dopo anni si fida di loro e non teme che nel cuore dei due sia ancora vivo il desiderio di scappare.
Si tratta di una storia spassosa che permette di visualizzare alcune caratteristiche del paese più misterioso al mondo, consentendo anche di coglierne alcune specificità sull’organizzazione sociale e la vita quotidiana.
Vicende che hanno un loro pubblico, dato che Bompiani ha dato alle stampe anche un memoir di Yeonmi Park, La mia lotta per la libertà (pp. 297, euro 18). Si tratta della storia di una giovanissima ragazza in fuga dalla Corea del Nord, a seguito della caduta sociale della propria famiglia. Vengono descritti i meccanismi autoritari e orrendi, messi in risalto anche da Fischer, ovvero l’esistenza del songbun, un vero e proprio sistema sociale che divide i nord coreani in tre gruppi principali di persone e di conseguenza di status economici.
La classe più elevata, il «nucleo», è formata dai «rivoluzionari» onorati dal regime. Contadini, veterani e parenti di chi ha combattuto contro il sud (guerra mai dichiarata finita senza mai un accordo di pace) e da «coloro che hanno dimostrato grande spirito di lealtà nei confronti della famiglia Kim».
Non solo eccessi
La seconda classe viene definita «fluttuante» o «basica», costituita «da chi viveva nel sud e avevano lì le loro famiglie, ex mercanti, intellettuali o persone comuni non del tutto affidabili in termini di lealtà nei confronti del nuovo ordine». Infine c’è il peggio del peggio, la classe abbietta, quella «ostile»: gli ex proprietari terrieri, i loro discendenti, i capitalisti, ex soldati del sud. La logica dominante, raccontata bene in entrambi i volumi, è la seguente: è molto difficile ascendere, mentre è semplice cadere in basso. E la caduta colpisce fino all’ultimo membro della famiglia.
La scelta di Bompiani arriva quasi un anno dopo l’uscita del libro della «defector» nord coreana più famosa al mondo, Hyeonseo Lee, autrice di La ragazza dai sette nomi (Mondadori, pp. 360, euro 20). O ancora Fuga dal campo 14 (Codici edizioni, pp. 290, euro 17) sulla vicenda di Shin Dong-hyuk, raccolta e raccontata dal giornalista (già Washington Post e Guardian) Blaine Harden.
Si tratta di libri utili a una cosa, più di altre: a ridare alla Corea del Nord uno status di paese da indagare al di là del sensazionalismo e della «narrazione degli eccessi», che finisce per descrivere un paese che, seppure con metodi discutibili, – ha la sua rilevanza nella regione.
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