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La Fratellanza occupa le piazze

La Fratellanza occupa le piazze

Egitto Centinaia di migliaia di persone per la liberazione del presidente: «Vittoria o martirio, resteremo per sempre»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 13 luglio 2013

«Tahrir è una piazza, noi occupiamo un intero quartiere»: urlano i giovani con al petto una foto sbiadita di Morsi. Quanto a mobilitazione delle masse, la Fratellanza ha poco da imparare. L’occupazione delle strade circostanti la moschea Rabaa el-Adaweya, per questo inedito primo venerdì di Ramadan, ha l’aspetto di un accampamento oceanico.

Centinaia di migliaia di persone dormono qui o fanno la spola dallo scorso 3 luglio, il giorno del colpo di stato militare, secondo la narrativa degli islamisti. È una battaglia anche di date già prima di entrare tra le tende. Il primo cartello schernisce la manifestazione del 30 giugno scorso, quando, secondo la piazza contrapposta di laici e militari si sarebbe svolta in Egitto addirittura la seconda «rivoluzione» in appena due anni.

Ma le manifestazioni degli islamisti sono decine in tutta la città. Camminiamo tra le fila di uomini e donne in preghiera dinanzi all’Università del Cairo, a Giza. Qui, dopo l’annuncio della destituzione di Morsi, sono state uccise sedici persone e ferite 200. Ombrelloni, inferriate, cassette di plastica e canapa, transenne, bastoni, cappelliere, tetti di giostre compongono l’improvvisata barricata che i poveri di queste strade contrappongono alle decine di carri armati dell’esercito. Qui Morsi aveva giurato il 30 giugno 2012, festeggiato da una folla immensa, quando piazza Tahrir apparteneva agli islamisti.

Ancora più evocativa di un declino repentino e violento della Fratellanza è la scena che si vede, raggiunta la moderna sede di Libertà e giustizia, nel quartiere di Moqattam. Un’alta inferriata era stata sistemata in fretta come per mettere in sicurezza un fortino, con decine di sacchi di cemento sparpagliati per proteggere le finestre. Campeggia uno striscione con i volti dei leader islamisti, dal murshid Badie a Khairat al-Shater, cancellati uno dopo l’altro. Per ore era durato l’assedio dei contestatori a questo palazzo e qui i magistrati sostengono che i leader della Fratellanza abbiano ordinato ai loro accoliti di sparare per allontanare la folla.

A Rabaa al-Adaweya sono sistemate dovunque le foto strazianti degli oltre 50 morti del palazzo della Guardia presidenziale, dove si dice Morsi sia detenuto. I venditori ambulanti promuovono cappelli e pantaloni comodi, la protesta è lunga e non violenta, mentre sono centinaia i ragazzi che innaffiano le teste e i corpi arsi al sole di centinaia di uomini e donne. Alcuni leggono il Corano sotto alte tende, mentre gli altoparlanti inneggiano a canzoni nazionalistiche. Era questo il segreto di Hassan Al-Banna, primo leader della Fratellanza: unire all’islamismo la difesa della nazione, da questo viene la motivazione per difendere l’identità pan-islamica dell’Egitto. «Il mio voto non conta», recita uno degli striscioni, mentre un ragazzo mostra il volto del generale Abdullah Sisi grondante di sangue. Ci fermiamo tra decine di donne, tutte con il velo. «È un golpe contrario alla legge islamica», inizia Hend. Ma poi si corregge: «Sono qui per difendere la democrazia e sarei venuta per qualsiasi altro presidente arrestato dai militari».

In alto una troupe della televisione giordana Yarmouk sostituisce le decine di canali televisivi islamisti, chiusi nei giorni scorsi per decisione delle autorità egiziane. «Al loro posto sono arrivate le telecamere di Zeitun dalla Tunisia, dei canali Mustaqilla e Al Hiwar», prosegue sorridente Ibrahim. Mentre crescono le pressioni internazionali, Washington inclusa, per il rilascio di Morsi. Il ministro degli Esteri iraniano, Ali-Akbar Salehi è volato ad Ankara per un colloquio con le autorità turche sul golpe in Egitto. Aumentano anche le manovre degli Stati Uniti: due navi della Us Navy pattugliano il Mar Rosso.

Si avvicina Jihan per mostrarci un video inquietante in una delle moschee intorno al palazzo della Guardia presidenziale. «Mentre pregavamo, polizia e polizia militare hanno lanciato gas lacrimogeni, è iniziata la sparatoria nel cortile della moschea. A quel punto, blocchi di cemento hanno impedito ai feriti di essere trasportati verso gli ospedali e neppure le ambulanze potevano raggiungerli», racconta impaurita la donna. Molti giovani di Tamarrod (ribellione) accusano gli islamisti di detenere una grande quantità di armi, parte del traffico di munizioni proveniente dalla Libia e non solo.

«La nostra arma è il Corano», ribatte Radwa che si avvicina per dire la sua. «Sono i ribelli (già la parola dovrebbe far pensare all’uso che fanno della violenza) ad aver imbracciato i kalashnikov quando sono iniziati gli scontri intorno a piazza Tahrir lo scorso venerdì», rincara Ibrahim. Eppure Morsi ha commesso degli errori. «Sì, con il decreto presidenziale che ha avviato lo scontro con i giudici e nella scrittura della Costituzione», ammette Jihan. «Vittoria o martirio», «saremo qui per sempre»: urlano da un capannello dei ragazzi che marciano dietro un camion.

Mentre qui tutto è congelato in attesa della liberazione di Morsi, la tabella di marcia dei militari in accordo con giudici e parte delle opposizioni va avanti. E così, il premier Hazem Beblawi ha nominato come vice Ziad Bahaa el-Din, economista social-democratico.

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