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Giovannangelo De Angelis: «Incentivi per chi cura la montagna, mappa del rischio da aggiornare»

Giovannangelo De Angelis: «Incentivi per chi cura la montagna, mappa del rischio da aggiornare»Casamicciola – Ansa

Intervista «Nessuno si sarebbe aspettato che smottasse la parte che è franata. Quella non era stimata come zona critica e infatti non c’era nessuna briglia né un sistema di mitigazione»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 30 novembre 2022

Architetto, presidente della sottosezione Cai Isola di Ischia e del Pida – Premio Internazionale Ischia di Architettura, Giovannangelo De Angelis è salito sul monte Epomeo dopo la frana e ci è tornato ieri.

Quali sono le valutazioni sulla zona venuta giù sabato?
Andando lì di nuovo, intorno ai 350 metri di altezza, a guardare bene, viene fuori che nessuno si sarebbe aspettato che smottasse la parte che è franata. Quella non era stimata come zona critica e infatti non c’era nessuna briglia né un sistema di mitigazione di questo tipo di fenomeni. Anche nel passato non è stata mai presa in considerazione da quanto punto di vista. C’è stato un evento meteorologico eccezionale, catastrofico, che ci ha dato la misura della fragilità della geologia in tutta quell’area.

Come si sarebbero potuti limitare i danni?
Se lì ci fossero stati dei terrazzamenti, come succedeva una volta, i danni sarebbero stati contenuti. C’è stata una frana a un chilometro di distanza e non ha avuto gli effetti disastrosi di sabato perché si è fermata lungo i terrazzamenti. Ma oggi è alquanto difficile immaginare che qualcuno ritorni lì, su quelle montagne, a ricostruire il muro a secco, a ridare vita all’area dal punto di vista economico.

Cos’è cambiato?
In origine tutta l’isola era terrazzata perché il reddito veniva da lì, hanno fatto muri a secco nei posti più impensati pur di strappare fazzoletti di terra da coltivare o da cui prendere il legname. Si trattava di agricoltura e viticoltura definita eroica proprio perché si operava dove non si sarebbe mai immaginato.

Il meteo annuncia maltempo, cosa si dovrebbe fare per evitare altri disastri?
Ci sono tre livelli di intervento con tempistiche differenti. La prima cosa, immediata, è evitare che in quell’area in momenti di allerta meteo ci sia qualcuno, servono cioè piani di evacuazione rapidi perché adesso non è prevedibile cosa si può staccare ancora dal fianco della montagna se arriva tutta quella pioggia. Quindi, subito dopo, pulire gli alvei, fare la manutenzione alle briglie e, soprattutto, iniziare a dare un senso a chi vuole ricominciare a curare il terrazzamento, magari con finanziamenti o crediti di imposta in modo che sia sostenibile economicamente.

Sul lungo periodo?
Immaginare un nuovo sistema di irreggimentazione idraulico del territorio in virtù dei cambiamenti climatici perché quello che ci aspetta non è paragonabile alle difficoltà affrontate dai nostri avi.

Casamicciola si trova di nuovo a fare i conti con la ricostruzione, come dopo il terremoto del 2017.
Si può ricostruire dov’era ma non com’era. Anzi si deve. Delocalizzare è possibile solo se si espropriano volumi in altre aree dell’isola. Su Casamicciola, però, va rifatta la mappa idrogeologica, bisogna capire se va catalogata in modo diverso. Dove ci sono stati i morti non era a rischio alto. A destra e sinistra di quell’area sì e infatti ci sono le briglie. Bisogna ristudiare in base ai nuovi fenomeni. Magari alla fine scopriamo che va stabilito un criterio di inedificabilità assoluto ma è un’informazione che adesso nessuno ha. Va rifatta la valutazione del rischio.

E il rischio sismico?
Sulla sismicità le informazioni ci sono già. Nel 2018 il Pida ha fatto un workshop con l’architetto giapponese Atsushi Kitagawara, esperto in progettazioni antisismiche. Ci ha mostrato come lavora in zone dove la magnitudo arriva al doppio di quella sprigionata a Casamicciola e le costruzioni restano in piedi. Certo, la nostra non è una zona facile, servono investimenti e professionalità. E poi c’è un’altra questione. Bisogna salvaguardare la vita e, subito dopo, la bellezza e il paesaggio. Non basta che il nuovo edificio sia antisismico e ammissibile da un punto di vista amministrativo, non può essere un ecomostro che regge i terremoti. Il dibattito oscilla tra ricostruire dov’era com’era o delocalizzare. Ma com’era non va bene: erano struttura edilizie senza storia, senza qualità architettonica ed estetica. Abbattiamo, edifichiamo in sicurezza e facciamo in modo che testimoni la nostra presenza in questo periodo storico.

Come dovrebbe agire la macchina amministrativa?
Stanno nominando un commissario ad hoc per un anno quando abbiamo già il commissario Legnini per la ricostruzione post terremoto che conosce tutto, i tecnici hanno la mappa, sanno qual è il tessuto degli abitanti. C’è già un processo avviato per il ripensamento urbanistico dell’area, una seconda struttura a che serve se non a spendere altri soldi? E poi i processi di ricostruzione dovrebbero essere democratici e partecipativi: gli abitanti vanno coinvolti, anche educati, devono essere consapevoli. E poi multidisciplinarietà: ci vogliono geologi, psicologi, sociologi, la progettazione deve essere integrata.

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