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La foto copia, la foto voluta

La foto copia,  la foto  volutaVivian Maier, «Autoritratto», 1953

Cartelli di strada Prendendo immagini di volti appartenenti a personaggi noti e, soprattutto, a persone comuni incrociate per strada, Diane Arbus si lasciò sfuggire una battuta su sé stessa...

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 20 marzo 2021

Prendendo immagini di volti appartenenti a personaggi noti e, soprattutto, a persone comuni incrociate per strada, Diane Arbus si lasciò sfuggire una battuta su sé stessa: «Non ho mai ottenuto uno scatto come volevo: è sempre venuto migliore o peggiore». La fotografa americana, scomparsa negli anni ’70, adoperava fotocamere (la Mamiya, la Rollei biottica, la Pentax 6×7) con pellicole di medio formato che davano immagini nitide e dettagliate. Tutt’altra resa rispetto agli apparecchi con film-cine da 35 millimetri, altrimenti conosciuti come «formato Leica». La Arbus era una professionista. Eppure, come si evince da quella sua ammissione, uno scatto per ottenere la fotografia desiderata sarebbe dipeso, se non dal corretto uso dei dispositivi della macchina che pure padroneggiava, da circostanze fortuite e imprevedibili. Stava lì il fascino della fotografia: nell’imprevedibilità che prescinde da calcoli sulla riuscita di uno scatto.

È davvero così? Si tratta d’imprevedibilità e non, piuttosto, di asservimento imposto dalla tecnologia dell’apparecchio fotografico? Nel tutto fotografabile dell’oggi, attraverso fotocamere fronte/retro integrate nei cellulari, le immagini inesauribili che circolano di cui siamo disinvoltamente emissari e destinatari si presentano ineccepibili nella loro uniformità: né migliori, né peggiori. Indipendenti da parametri di valutazione. Il decisore, quello che le preordina, è un pulsantino. Pigiandolo, aziona un programma predefinito il quale restituisce, all’istante, l’immagine che ci sta davanti (una foto-copia, potremmo dedurre) e che riguardiamo sul display: dunque, fotografando quel che si guarda, aveva detto qualcuno, non facciamo altro che fotografare sempre noi stessi. Anche nei meccanismi interni della macchina analogica esisteva un programma predefinito di cui il fotografo, consapevole o no, era puntuale esecutore. Oltre quel programma la creatività del fotografo per esaudire l’ambizione dello scatto voluto non poteva spingersi.

Ma se la fotocamera del cellulare non richiede alcuna fase preparatoria per fotografare (fa tutto il pulsantino che emette la foto-copia del soggetto sul display), la macchina meccanica invece la richiedeva. Ed era questa richiesta a risultare illusiva per il fotografo. Il quale in fase preparatoria caricava nella macchina rullini di pellicola con sensibilità idonea alla ripresa; innestava al suo corpo l’obiettivo necessario: il normale o il grandangolo o il tele; inquadrava il soggetto stimando la messa a fuoco, regolando l’apertura del diaframma per dosare la luce, scegliendo una velocità dell’otturatore per congelare il movimento. Tutte operazioni che un fotografo esperto eseguiva rapidamente, senza dubbio, convinto che con un po’ di fortuna poi avrebbe ottenuto lo scatto voluto. Che non c’è mai stato.

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