Tratto dal best seller di Maria Semple (2012), l’ultimo film di Richard Linklater, Where’d You Go Bernadette, arriva nelle sale Usa in sordina e un po’ circondato di mistero. Finito -pare – dall’anno scorso, è la strana combinazione tra l’autore texano e un romanzo d’esordio satirico/surreale ambientato tra i ghiacci dell’Antartica e il Pacific Northwest – non una storia aperta, sfumata, magari ricca di personaggi come quelle che piacciono al regista di Boyhood e Slacker, ma un testo scrittissimo, zeppo di notazioni caricaturali, corrispondenze e mail, blog post e punti esclamativi, con al centro un personaggio femminile molto sopra le righe. Produce e distribuisce Annapurna l’avventurosa casa di Megan Ellison che aveva comprato il libro subito dopo l’uscita e che, solo qualche giorno fa, è stata data per l’ennesima volta sull’orlo del fallimento.

Cate Blanchett ha attinto a piene mani dalla sua vena Katharine Hepburn (ruolo per cui vinse un Oscar nel 2005, nel film The Aviator) per «trovare» la sua Bernadette – architetto/genio denominazione McArthur, ridotta alla parodia di sé stessa, in una mansion da famiglia Addams, piena di muri scrostati, dopo che un orribile miliardario ha comprato e distrutto la casa capolavoro visionario che aveva disegnato e in cui viveva a Los Angeles.

COME la versione inacidita di una delle ricche eccentriche, dalla gestualità esagerata, che Hepburn ha interpretato in tanti suoi film, nascosta dietro a un paio di enormi occhiali scuri, Bernadette Fox passa le giornate e litigare con la vicina (Kristen Wiig) e a maledire Seattle, dove si è trasferita con il marito star dell’informatica che è un pezzo grosso della Microsoft. Unica luce delle sue giornate rese ancora più uggiose dal cielo grigio e dalla pioggia continua, la figlia teen ager che per la graduation esige in regalo un viaggio in Antartica con mamma e papà. Terrorizzata persino all’idea di uscire di casa, Bernadette disfa e rimette in piedi i preparativi del temutissimo viaggio sfogando le sue frustrazioni su, e con l’aiuto di, un’assistente digitale indiana, di nome Margiula, capace di ordinarle di tutto, persino degli antidepressivi che sarebbero illegali per un elefante. Scritto «in codice» made in Silicon Valley, e pieno di frecciate nei confronti del suo milieu falsamente rilassato e tutto Pc, il libro di Sample era una satira feroce del culto del genio/imprenditore digitale, della corporatizzazione della creatività e un omaggio all’irrazionalità del gesto artistico. In fuga per grande parte del libro e tecnicamente introvabile alla sua conclusione, la Bernadette di Sample era anche una madre che, in nome del suo fuoco individuale, prima poneva in continuo imbarazzo la famiglia e dopo non esitava ad abbandonarla. Anche se il libro non metteva mai in dubbio i suoi affetti la priorità era un’altra. Alle prese con un testo sintatticamente diversissimo da quelli su cui lavora di solito, Linklater sceglie un approccio più soft e più lineare di quello della scrittrice; e si trattiene nell’uso del vetriolo persino con la vicina, sempre foderata di Patagonia che ricorda le mamme bisbetiche di Little White Lies e finisce con la casa sepolta dal fango.

IL MARITO di Bernadette (Billy Crudup) è bello, gentile, e solo un po’distante. La figlia «la migliore amica» di sua mamma, e sicuramente più «matura» di lei. Mentre Bernadette scompare relativamente all’inizio del libro e rimane un fantasma/enigma per gran parte della sua durata, Linklater si dilunga sul quadretto di famiglia, sposta il viaggio nell’ultima parte e cede clamorosamente a un happy ending tradizionalista che è anche un tradimento rispetto alla proposta teorica di Semple.

PERÒ, anche se si tratta di una porzione ridotta, come Bernadette, il suo film inizia a respirare una volta tra i ghiacci. Gli iceberg bianchi ripresi come magnifiche forme architettoniche, il silenzio e la pace di quel mondo bianco in cui la mente della protagonista e anche la nostra possono finalmente spaziare. Lontano dai cliché dell’upper class tecnologica ma anche -molto francamente- da un marito e una figlia «da manuale». Alla fine, quello che ti porti a casa di questo film non molto riuscito (e probabilmente tormentato al montaggio), aldilà dei manierismi di Blanchett e della dolcezza tonale di Linklater è comunque un messaggio importante, e tutt’altro che conciliatorio: la forza dell’arte sta anche, e molto spesso, nel suo essere antisociale.