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La forza dell’arte nascosta dietro gli occhiali scuri di Bernadette

La forza dell’arte nascosta dietro  gli occhiali scuri di BernadetteCate Blanchett

Cinema Esce negli Stati uniti il nuovo film di Richard Linklater, protagonista Cate Blanchett

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 20 agosto 2019

Tratto dal best seller di Maria Semple (2012), l’ultimo film di Richard Linklater, Where’d You Go Bernadette, arriva nelle sale Usa in sordina e un po’ circondato di mistero. Finito -pare – dall’anno scorso, è la strana combinazione tra l’autore texano e un romanzo d’esordio satirico/surreale ambientato tra i ghiacci dell’Antartica e il Pacific Northwest – non una storia aperta, sfumata, magari ricca di personaggi come quelle che piacciono al regista di Boyhood e Slacker, ma un testo scrittissimo, zeppo di notazioni caricaturali, corrispondenze e mail, blog post e punti esclamativi, con al centro un personaggio femminile molto sopra le righe. Produce e distribuisce Annapurna l’avventurosa casa di Megan Ellison che aveva comprato il libro subito dopo l’uscita e che, solo qualche giorno fa, è stata data per l’ennesima volta sull’orlo del fallimento.

Cate Blanchett ha attinto a piene mani dalla sua vena Katharine Hepburn (ruolo per cui vinse un Oscar nel 2005, nel film The Aviator) per «trovare» la sua Bernadette – architetto/genio denominazione McArthur, ridotta alla parodia di sé stessa, in una mansion da famiglia Addams, piena di muri scrostati, dopo che un orribile miliardario ha comprato e distrutto la casa capolavoro visionario che aveva disegnato e in cui viveva a Los Angeles.

COME la versione inacidita di una delle ricche eccentriche, dalla gestualità esagerata, che Hepburn ha interpretato in tanti suoi film, nascosta dietro a un paio di enormi occhiali scuri, Bernadette Fox passa le giornate e litigare con la vicina (Kristen Wiig) e a maledire Seattle, dove si è trasferita con il marito star dell’informatica che è un pezzo grosso della Microsoft. Unica luce delle sue giornate rese ancora più uggiose dal cielo grigio e dalla pioggia continua, la figlia teen ager che per la graduation esige in regalo un viaggio in Antartica con mamma e papà. Terrorizzata persino all’idea di uscire di casa, Bernadette disfa e rimette in piedi i preparativi del temutissimo viaggio sfogando le sue frustrazioni su, e con l’aiuto di, un’assistente digitale indiana, di nome Margiula, capace di ordinarle di tutto, persino degli antidepressivi che sarebbero illegali per un elefante. Scritto «in codice» made in Silicon Valley, e pieno di frecciate nei confronti del suo milieu falsamente rilassato e tutto Pc, il libro di Sample era una satira feroce del culto del genio/imprenditore digitale, della corporatizzazione della creatività e un omaggio all’irrazionalità del gesto artistico. In fuga per grande parte del libro e tecnicamente introvabile alla sua conclusione, la Bernadette di Sample era anche una madre che, in nome del suo fuoco individuale, prima poneva in continuo imbarazzo la famiglia e dopo non esitava ad abbandonarla. Anche se il libro non metteva mai in dubbio i suoi affetti la priorità era un’altra. Alle prese con un testo sintatticamente diversissimo da quelli su cui lavora di solito, Linklater sceglie un approccio più soft e più lineare di quello della scrittrice; e si trattiene nell’uso del vetriolo persino con la vicina, sempre foderata di Patagonia che ricorda le mamme bisbetiche di Little White Lies e finisce con la casa sepolta dal fango.

IL MARITO di Bernadette (Billy Crudup) è bello, gentile, e solo un po’distante. La figlia «la migliore amica» di sua mamma, e sicuramente più «matura» di lei. Mentre Bernadette scompare relativamente all’inizio del libro e rimane un fantasma/enigma per gran parte della sua durata, Linklater si dilunga sul quadretto di famiglia, sposta il viaggio nell’ultima parte e cede clamorosamente a un happy ending tradizionalista che è anche un tradimento rispetto alla proposta teorica di Semple.

PERÒ, anche se si tratta di una porzione ridotta, come Bernadette, il suo film inizia a respirare una volta tra i ghiacci. Gli iceberg bianchi ripresi come magnifiche forme architettoniche, il silenzio e la pace di quel mondo bianco in cui la mente della protagonista e anche la nostra possono finalmente spaziare. Lontano dai cliché dell’upper class tecnologica ma anche -molto francamente- da un marito e una figlia «da manuale». Alla fine, quello che ti porti a casa di questo film non molto riuscito (e probabilmente tormentato al montaggio), aldilà dei manierismi di Blanchett e della dolcezza tonale di Linklater è comunque un messaggio importante, e tutt’altro che conciliatorio: la forza dell’arte sta anche, e molto spesso, nel suo essere antisociale.

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