I colpi alla porta che in una notte dell’autunno 1680 svegliano la scrittrice preferita di Luigi XIV, Madelaine de Scudery, nella sua casa di Rue St. Honoré, sono uno dei tanti gesti in cui una storiografia letteraria a caccia di certezze volle riconoscere, ormai molto tempo fa, l’atto d’inizio del poliziesco europeo. Quei colpi, che danno l’avvio alla storia della ricerca di un brutale assassino, nascondono in realtà molti misteri e sono all’origine di uno dei più brillanti intrecci costruiti da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, il massimo narratore del romanticismo tedesco.
La vittima dell’omicidio è una celebrità: René Cardillac, il più grande creatore di gioielli dei suoi tempi, anche lui molto amato a corte. E i colpi alla porta li ha dati uno sconosciuto che è fuggito lasciando nelle mani dell’anziana e impavida Scudery un monile, ultima creazione del defunto. Parrebbe logico dedurre da tutto questo un omicidio per rapina, ma le circostanze inducono a nutrire qualche dubbio. Inoltre la polizia ha arrestato Olivier Brusson, l’aiutante di Cardillac, che è ritenuto il sicuro artefice del delitto e di cui la Scudery, in passato, è stata una sorta di madre adottiva.

Genio malato
L’anziana scrittrice decide di affrontare Olivier che di fronte alla polizia si rifiuta ostinatamente di discolparsi, lo convince a confessare quel che sa, e a questo punto Hoffmann mette in bocca al giovane aiutante il ritratto di uno dei personaggi più sinistri scaturiti dalla sua fantasia. Perché Cardillac, così racconta Olivier, era un mostro, un genio malato e, lui sì, un assassino dei più feroci. Olivier, può testimoniarlo perché una notte, dopo esser stato licenziato dal suo maestro, aggirandosi vicino alla sua abitazione nella speranza di essere avvistato dalla bella figlia Madelon, aveva visto l’orefice sgattaiolare in strada e aggredire un uomo con la furia di una tigre. Poco dopo lo stesso Cardillac gli aveva fatto visita nella sua stanzetta e alternando i modi e le parole più gentili a esplicite minacce lo aveva invitato a tornare al suo servizio. Qualche tempo dopo, inoltre, sapendolo ormai legato alla figlia Madelon, aveva deciso di rivelargli la sua storia. È lui, Cardillac, il vero artefice di una serie di delitti, attribuiti a una misteriosa «banda», di cui sono stati vittime i proprietari dei suoi gioielli e questo per la sola ragione che l’orefice non può consegnare alcuna opera a un suo committente senza sentire l’impulso incoercibile a rientrarne in possesso e a uccidere colui che l’ha comprata.

Hoffmann, consigliere del tribunale di Berlino, non ha inventato tutto. Pochi mesi prima di scrivere il suo racconto, nel 1818, ha dovuto scrivere una perizia per il caso di un imputato di omicidio, Daniel Schmolling, accusato di aver ucciso la sua amante Henriette Lehne. Ritenuto da un perito del tribunale afflitto da amentia occulta Schmolling ha ottime probabilità di essere assolto. Ma Hoffmann è incaricato del riesame e giunge a conclusioni opposte a quelle del perito sulla base dello studio di una vasta letteratura scientifica. Il caso di sicuro lo affascina; perché per lui non si tratta solo di affrontare una delle questioni più spinose per la giurisprudenza dei suoi tempi – l’incapacità di intendere e di volere momentanea o parziale – ma di tornare a contatto con una dimensione, quella della follia, che gli sembra rappresentare una chiave d’accesso alla sua epoca: un’epoca in cui le diverse forme dell’ossessione, della scissione e della furia maniacale sembrano essersi amplificate fino a diventare fenomeni di massa e presenze ordinarie.

Hoffmann, che non ama il suo tempo ed è rimasto letteralmente traumatizzato dagli anni delle guerre napoleoniche, studia la follia nelle sue espressioni tragiche e grottesche come materiale da romanzo. Così non è per caso che molti passi della confessione di Schmolling ritornino in quella di Cardillac. Dalla descrizione dello stato parossistico in cui il giovane omicida aspetta di poter commettere il suo delitto Hoffmann riprende ogni dettaglio utile a rendere viva l’impressione dell’angoscia che costringe il suo orefice a uccidere: «Avevo appena consegnato a un cortigiano un ricco gioiello destinato, lo sapevo, a una ballerina dell’opera… Mi rigiravo nel letto, insonne, in un bagno di sudore… vedevo come in sogno quell’uomo recarsi dalla ballerina con il mio gioiello… L’uomo giunse, gli balzai addosso…immobilizzandolo per le spalle gli immersi il pugnale nel cuore. Il gioiello era mio! Fatto questo mi sentii invadere da un senso di calma, di soddisfazione mai provato. Lo spettro era svanito».

Un Jekyll ante litteram
Cardillac entra e esce dalla sua follia al ritmo dei suoi delitti, vero Jekyll ante litteram, è di giorno un uomo di mondo e di notte una belva. Ma la sua follia è un’ossessione estetica. Cardillac è perseguitato dall’idea che il frutto del suo lavoro creativo possa trasformarsi in un oggetto di scambio o in un pegno amoroso, perdendo l’originaria purezza e confondendosi con una qualsiasi altra merce. L’angoscia che lo opprime nasce dal desiderio maniacale di conservare all’opera la sua aura, di revocarla come oggetto per restituirla alla pura sfera della sua origine nello spazio che l’ha vista nascere. In questo senso Cardillac sembra essere letteralmente la prima vittima letteraria della mercificazione dell’arte.

Tuttavia la sua ossessione omicida ha nature molteplici e, perciò, molteplici significati. Nel corso della sua confessione lui stesso attribuisce la sua condizione agli effetti di una suggestione prenatale e alla circostanza per cui sua madre, incinta, era rimasta affascinata da un misterioso aristocratico adorno di magnifici gioielli, morto improvvisamente mentre la stringeva fra le braccia. La debolezza della spiegazione la mostra per ciò che è: un’autoassoluzione che deve consentire a Cardillac non solo di dare una parvenza di legittimità alle sue azioni ma soprattutto di rendere plausibile la sua doppiezza. «Non credere – dice ancora a Olivier – che siccome faccio quel che non posso non fare abbia semplicemente rinunciato a quella compassione, a quella pietà che sembra si fondino nella natura umana». In questa osservazione sta il tratto più odioso di Cardillac e quello che, probabilmente, agli occhi di Hoffmann, ne giustifica la fine. Così come le capacità artistiche sono il presupposto che deve giustificare la sua mania omicida, la sua coscienza della colpa cerca di rendersi accettabile attraverso l’assunzione di una maschera morale. La razionalità diurna offre l’alibi della compassione alla ferocia notturna. In questo Hoffmann riconosce la vera debolezza del suo tempo: l’inclinazione a dare giustificazione sublime a bassi istinti, a mascherare d’idealità gli impulsi meno nobili, a fare dell’arte, del bello, della genialità il criterio di legittimazione di ogni cosa. Consiste di queste confusioni l’ambivalenza che Hoffmann smaschera nei suoi contemporanei e contro di esse procede, sempre, come il più rigoroso dei pubblici ministeri.

La condanna poetica
Alla fine Schmolling viene dichiarato colpevole e condannato a morte. Fondamento dell’accusa è la relazione di Hoffmann che argomenta contro l’incapacità di intendere dell’imputato sostenendo che la letteratura non conosce casi di follia evidenziati da un’unica e isolata manifestazione. Un’amnistia salva Schmolling dal patibolo e commuta la sua pena in carcere a vita. Cardillac, invece, muore. Pare di notare una contraddizione: l’omicida occasionale non è un pazzo, ma la sua confessione viene usata per rappresentare la follia dell’orefice. Tuttavia il racconto, messo a confronto con il caso che lo ispira, sembra dire che, folle o no, chi merita il giudizio più severo è colui che falsifica la realtà. E Hoffmann non si contraddice. La condanna poetica colpisce l’ipocrisia morale del pazzo, non la sua malattia. La giustizia reale invece punisce l’omicida per il reato che commette. Il quale comunque, per poter essere commesso, deve aver cancellato ogni residuo di umanità e ragionevolezza nel suo autore rendendolo per un attimo simile a un pazzo. E di fronte a questa debolezza, può anche dimostrarsi magnanima.