Razos (La nave di Teseo, pp. 112, euro 15) di Lello Voce sembra essere un libro orientato a sconvolgere chi si appresta a leggerlo, mettendo in questione molte delle nostre più radicate certezze intorno a che cosa debba essere un «libro di poesia». Incominciamo dall’organizzazione del macrotesto: il libro si compone di trentaquattro testi, di cui la prima metà è costituita dalle razos propriamente dette, mentre la seconda da diciassette Madrigali muti.

Le poesie sono relegate, insomma, alle ultime pagine, mentre la gran parte di esse è occupata da testi in prosa riconducibili nientemeno che alla tradizione trobadorica. Le razos erano infatti brevi componimenti introduttivi volti a illustrare le ragioni e gli scopi delle poesie che, di norma, anticipavano, insieme a delle indicazioni pratiche, diremmo oggi «istruzioni per l’uso», indirizzate al giullare che avrebbe dovuto eseguirle.

INUTILE, PERÒ, cercare una qualche corrispondenza fra i testi della prima metà del libro e quelli della seconda, in preda al paradosso logico di una metonimia impossibile (o di una mise en abyme altrettanto negata). Non sussiste alcuna specularità fra le razos e i Madrigali muti: la poesia introdotta non esiste, sebbene venga descritta minuziosamente sul piano lessicale, tematico, metrico-sintattico, finanche nelle corrispondenze matematiche celate al suo interno, e soprattutto nel tipo di esperienza estetica che intende veicolare attraverso l’atto di lettura. Chi legge non troverà altro che spettri di linguaggio, fantasmi concettuali, torsioni parossistiche del senso cui non consegue alcun «prodotto» letterario.

Nell’epigrafe al testo 9 Voce ci dice attraverso Haroldo De Campos che l’unico modo per rispettare una tradizione è tradirla – ecco, dunque, la prima strategia testuale mediante la quale un tale tradimento si estrinseca e si invera: l’autore esibisce i meccanismi di funzionamento di un certo dispositivo retorico (in questo caso della forma razó stessa) al fine di operarne il deliberato sovvertimento. La seconda modalità di tradimento della tradizione si esplicita nella componente evidentemente filosofica e saggistica del libro, e cioè l’autore sembra aver allestito un trattato filosofico più che stratificato, diremmo proteiforme e rabelaisiano, sulle origini e sui possibili fini della poesia tout court, in quanto forma storica e in quanto linguaggio.

EBBENE, se l’intento è quello di costruire un’ontologia della poesia, che sia però di matrice storico-materialistica, sarà indispensabile rifiutare qualunque sostrato di tipo mistico. Il risultato di una tale operazione consisterà in una vera e propria autopsia della poesia. In questo libro la poesia viene immaginata come un corpo che autore e lettore sono invitati a smembrare per poi cibarsene, proprio come avviene nel mito dionisiaco dello sparagmos: le baccanti fanno a pezzi il corpo della divinità per poi assumerlo al proprio interno.

Antropofagia e teofagia convergono, in questo caso, in una riemersione della materialità intrinseca alla poesia stessa, una materialità protosemantica che prende vita in suoni disarticolati, ritmi, immagini incomplete, caratteri tipografici cancellati come nell’opera di Emilio Isgrò in copertina, e ancora lallazioni, balbettii, segni matematici e leggi metriche, senza dimenticare alcuni suggestivi riferimenti alla biologia, alla fisica, all’elettricità. Nelle Razos la poesia è una «tenia» e ha «natura eminentemente parassita», vale a dire una pura virtualità di senso che, nutrendosi di tutti i media, si costituisce come macromedium o metamedium agli occhi di chi legge, e proprio attraverso il «buco» dei suoi significati gli consente un ingresso inedito.