La finta armonia del nazionalcapitalismo
Illustrazione Ikon Images/Ap
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La finta armonia del nazionalcapitalismo

Melonomics Con buona pace delle narrazioni interclassiste, tenendo conto dell’inflazione quella del governo Meloni è la legge di bilancio dei capitalisti che fanno i prezzi
Pubblicato circa un anno faEdizione del 25 ottobre 2023

Organicista, interclassista, votata alla concordia nazionale. La manovra del governo sembra aver dato la stura a una nuova narrazione compiacente della politica economica meloniana. Stando al copione, Meloni e soci starebbero riuscendo nell’impresa di unire la nazione.

Sotto un clima d’armonia sociale che nemmeno i manganelli del corporativismo fascista erano riusciti a creare. Il nazionalcapitalismo del governo pare infatti capace di metter d’accordo un po’ tutti: dai redditieri agli imprenditori, dai grandi ai piccoli capitalisti, dai commercianti ai lavoratori autonomi, dagli evasori alle persone perbene, fino addirittura ai lavoratori dipendenti.

Naturalmente, nella tipica tradizione della destra, un’attenzione particolare il governo la rivolge ai capitalisti immobiliari. Come già avvenuto con l’incremento della tassa di soggiorno, anche l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi rappresenta un ridicolo obolo per i proprietari, le cui rendite negli ultimi anni sono esplose a ritmi persino tripli rispetto all’inflazione. E soprattutto, nonostante le sollecitazioni della Commissione Ue, l’attuale esecutivo non ha intenzione di adeguare le ormai vetuste rendite catastali ai valori di mercato (come del resto nemmeno ce l’aveva il governo draghiano degli ottimati).

Al di là della consueta attenzione rivolta ai padroni del mattone, bisogna comunque ammettere che l’erogazione di prebende da parte della destra di governo è stata finora piuttosto estesa, arrivando a placare la fame di gruppi di interesse tutt’altro che coincidenti.
Ma a quest’orgia di interclassismo meloniano, si può davvero aggiungere anche il lavoro dipendente? La stampa di palazzo pare intenzionata a interpretare proprio così la legge di bilancio prossima all’approvazione. L’ispirazione viene dal fatto che il governo vara un’operazione da 24 miliardi, di cui ben 14 andranno a finanziare il taglio ai contributi e all’Irpef necessari a sostenere le buste paga aggredite dall’inflazione. L’esecutivo potrà cioè rivendicare che quasi il 60 percento della manovra andrà a sostenere i salari. Dopo i fasti del Berlusconi operaio, vi è già chi declama l’avvento della Meloni di lotta e di governo.

Questa lieta narrazione, tuttavia, presenta un problema: è truccata. Nella fase del boom inflazionistico l’Italia ha fatto registrare il più pesante crollo del potere d’acquisto dei salari tra i paesi avanzati: una perdita di quasi 7 punti e mezzo a fronte di un calo di 4 punti nella media Ocse, di 3 punti in Germania e 2 in Francia. Per giunta, l’erosione è destinata a durare anche quest’anno e l’anno prossimo, a causa di un aumento dei prezzi che resterà più alto nel nostro paese rispetto all’estero.

L’implicazione è che per contenere la perdita di potere d’acquisto almeno al livello della media Ocse, ci sarebbero già voluti oltre 50 miliardi all’anno negli ultimi due anni. Riguardo poi al futuro, i 14 miliardi varati dal governo per l’anno prossimo sono praticamente tutti già bruciati dall’inflazione attesa.

Ma non è finita qui. Se il reddito reale del lavoro dipendente viene considerato in un’accezione più ampia, comprensivo del welfare, della spesa sanitaria, dell’assistenza agli inabili e dei sussidi ai disoccupati, si comprende che l’effetto netto “di classe” sarà ancora peggiore. Al di là dell’annuncio di tremontiana memoria, di nuovi «tagli lineari» ai dicasteri e agli enti locali, il problema principale attiene ancora una volta all’inflazione. Le maggiori spese di bilancio sono infatti presentate dal governo in termini nominali, ma il loro effettivo potere d’acquisto e di erogazione dei servizi risulta anch’esso pregiudicato dal forte aumento dei prezzi italiani. Esemplari sono le fanfare di governo sull’annunciato incremento della spesa sanitaria: con un’inflazione nel settore sanitario maggiore della media nazionale, il risultato reale non sarà un aumento della spesa ma una sua diminuzione.

Considerato che ogni incremento dei prezzi che eroda i redditi da lavoro accresce le rendite e i profitti, la conclusione è chiara. Con buona pace delle narrazioni interclassiste, quella del governo è la manovra dei price makers: i capitalisti che fanno i prezzi.

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