La fine dell’anomalia di Berlino
Forse è esagerato concludere che l’anomalia berlinese, quella specificità culturale e antropologica che la storia ha conferito alla città, rendendola sostanzialmente diversa dal resto della Germania, si trovi ormai sulla […]
Forse è esagerato concludere che l’anomalia berlinese, quella specificità culturale e antropologica che la storia ha conferito alla città, rendendola sostanzialmente diversa dal resto della Germania, si trovi ormai sulla […]
Forse è esagerato concludere che l’anomalia berlinese, quella specificità culturale e antropologica che la storia ha conferito alla città, rendendola sostanzialmente diversa dal resto della Germania, si trovi ormai sulla via della normalizzazione. In fondo l’asse della politica berlinese resta fortemente spostato a sinistra. E un governo Spd-Verdi- Linke (non una novità per la capitale) si delinea come la formula con maggiori possibilità di successo
Tuttavia Berlino sembra, per altri versi, allinearsi alle grandi tendenze in atto nel resto della Repubblica federale: l’emorragia di voti, inarrestabile e imponente che colpisce i grandi partiti popolari, i socialdemocratici e i democristiani, e l’affermazione dei nazionalisti di Alternative fuer Deutschland, su posizioni sempre più decisamente vicine a una cultura da destra radicale.
Nella capitale il partito di Frauke Petry presentava un ex ufficiale dell’esercito, campione della tolleranza zero, che, pur in una metropoli dallo spirito decisamente libertario, ha portato all’Afd un sostanzioso 14 per cento dei suffragi. Vero è che a Berlino non è mai mancata una consistente opinione pubblica di stampo ultraconservatore, quella che, all’ombra del muro, era stata blandita e alimentata dall’impero mediatico di Axel Springer. Tuttavia, quell’elettorato, più filoatlantico che nazionalista, si trovava del tutto a suo agio nella casa democristiana. Ed ha continuato a farlo anche dopo che le ombre della guerra fredda si erano completamente dissolte. Tra mugugni e malumori si era in qualche modo adattato allo sviluppo multiculturale e «trasgressivo» della metropoli. In fondo l’essere stata Berlino per decenni un isola blindata, completamente circondata dalla Repubblica democratica tedesca, non poteva che favorire, non appena questo divenne possibile, uno spirito di apertura. Insomma, l’immigrazione, comunitaria ed extracomunitaria, giovanile, ma non solo, non poteva essere disgiunta dalla ritrovata libertà di circolazione, dal ritorno di Berlino tra i grandi crocevia del mondo globalizzato. Serviva, inoltre, a compensare il fatto che i cittadini della vecchia Germania occidentale non avevano mostrato alcun particolare desiderio di trasferirsi in massa nella nuova capitale del paese riunificato, la cui espansione faticava a decollare.
Questo nesso tra immigrazione e rottura dell’isolamento, tra cosmopolitismo e occasione di sviluppo, sembra ora essersi incrinato. Anche ad opera di una parte di quella immigrazione consolidata, timorosa di perdere le posizioni acquisite confondendosi con i nuovi arrivati. Troppi commensali al tavolo di un welfare in via di contrazione a favore della competitività germanica. Insomma, il tema dei profughi ha avuto il suo peso rilevante anche a Berlino, nella città che dell’apertura e dell’accoglienza aveva fatto e avrebbe dovuto continuare a fare, più di ogni altra, la sua cifra. È il segnale che la Cancelliera Merkel non ha mancato di registrare prontamente, esibendosi in una autocritica (anche se non ancora una vera e propria abiura) rispetto alla politica migratoria adottata nel 2015, ben più esplicita e decisa di quelle pronunciate a mezza bocca dopo le recenti frane elettorali del suo partito e gli attacchi subiti dalle sue stesse fila e, soprattutto, dagli alleati bavaresi della Csu. È questo il più consistente risultato politico conseguito da Afd.
La ritrattazione di Angela Merkel, non si ripercuote però solo sulla politica tedesca. Con parte consistente del suo elettorato che le volta le spalle, costretta a smentire l’ottimistico «ce la facciamo!» del 2015, la Cancelliera dispone di ben poca forza contrattuale nei confronti delle posizioni di chiusura totale che dominano incontrastate nell’Est europeo. Ma anche il tentativo della Germania di guidare un riordino complessivo della politica migratoria dell’Europa va perdendo di solidità. Se le «priorità nazionali» si mettono di traverso, le ragioni dell’Unione su questo terreno, anche quanto alle risorse da investire, vanno incontro a un rapido disfacimento.
Ognuno per sé, dunque. Tanto più con l’incognita di una politica turca a dir poco infida e con la prospettiva di una pacificazione della Siria svanita prima ancora di assumere una pur minima consistenza.
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