La fine dei dinosauri incisa nel granito
Geologia La missione Expedition 364, che ha scavato sotto il fondale di fronte a Chicxulub, confermerebbe che l'estinzione avvenne a causa dell'impatto con la Terra dell'asteroide. Dalla loro piattaforma offshore, i geologi sono riusciti a perforare la roccia fino a una profondità di 1300 metri, attraversando i sedimenti depositati in 66 milioni di anni, fino a raggiungere il peak ring e studiarne la composizione
Geologia La missione Expedition 364, che ha scavato sotto il fondale di fronte a Chicxulub, confermerebbe che l'estinzione avvenne a causa dell'impatto con la Terra dell'asteroide. Dalla loro piattaforma offshore, i geologi sono riusciti a perforare la roccia fino a una profondità di 1300 metri, attraversando i sedimenti depositati in 66 milioni di anni, fino a raggiungere il peak ring e studiarne la composizione
Quando 66 milioni di anni fa un gigantesco asteroide colpì il golfo del Messico, correva a una velocità di circa settantamila chilometri all’ora. L’impatto rilasciò un’energia pari a un miliardo di bombe di Hiroshima. La crosta terrestre si squagliò negli strati più profondi. In mezzo al cratere largo 200 chilometri, si innalzò una torre di roccia fusa alta dieci. Quando ricadde al suolo, il fluido formò un’onda simile ai cerchi sul pelo dell’acqua di uno stagno. Col raffreddamento e la solidificazione della roccia, l’onda fu pietrificata per sempre. Così, all’interno del cratere, oggi coperto a metà dal mare, rimase un anello rialzato di parecchie centinaia di metri, il cosiddetto peak ring, con un diametro di circa 80 chilometri.
La conferma che le cose andarono davvero così è arrivata nei giorni scorsi dagli scienziati della Expedition 364, una missione dell’International Ocean Discovery Program che, nella scorsa primavera, ha scavato sotto il fondale di fronte a Chicxulub, penisola dello Yucatan. Lì si trova il cratere generato dall’impatto con l’asteroide. Dalla loro piattaforma offshore, i geologi guidati da Joanna Morgan dell’Imperial College di Londra e Sean Gulick dell’Università di Austin (Texas) sono riusciti a perforare la roccia fino a una profondità di 1300 metri, attraversando i sedimenti depositati in 66 milioni di anni, fino a raggiungere il peak ring e studiarne la composizione.
SULLA RIVISTA Science hanno pubblicato una prima analisi delle rocce prelevate, in cui sembra abbondare il granito. Normalmente, il granito si trova in strati della crosta ben più profondi. Perciò, la scoperta suggerisce che l’asteroide abbia fluidificato la roccia fino a 15-20 km di profondità, permettendole di risalire in superficie. Proprio come previsto dagli scienziati.
Se le successive analisi confermeranno i dati, le scoperte dell’Expedition 364 chiuderanno con successo un’indagine iniziata quarant’anni fa su uno degli eventi più rilevanti avvenuti sul nostro pianeta: l’impatto con un asteroide di grandi dimensioni in grado di cambiare nel giro di pochi minuti il destino della Terra, dei suoi abitanti passati (dinosauri e non solo) e futuri (noi, ad esempio). Sarà allora più credibile anche lo scenario globale successivo all’impatto. Secondo i modelli, l’onda sismica raggiunse la magnitudo 10 e onde di centinaia di metri inondarono le coste dell’Africa e dell’Europa, allora più vicine al continente americano. Venti fortissimi diffusero la polvere incandescente e provocarono incendi su tutta la superficie terrestre. I metalli pesanti ricoprirono la terra e inquinarono le acque. Di una simile catastrofe, però, fino al 1980 nessuno sapeva nulla. E forse non se ne saprebbe niente nemmeno oggi, senza il talento visionario del geologo statunitense Walter Alvarez (oggi 76enne) e di suo padre, il premio Nobel per la fisica Luis.
LA VICENDA che si conclude nello Yucatan nasce in una regione assai più familiare: la Gola del Bottaccione a Gubbio, in provincia di Perugia. Lì, alla fine degli anni settanta, Walter e Luis Alvarez svolgevano una campagna di ricerca sulla geologia umbra. Gli Alvarez cercavano le cause delle cinque estinzioni di massa conosciute, l’ultima delle quali si è verificata proprio 66 milioni di anni fa. L’estinzione dei dinosauri, insieme al 75% delle specie, segnò la fine del periodo Cretaceo (l’ultimo dell’Era Mesozoica) e l’inizio del Paleogene (il primo periodo del Cenozoico) ed è documentato da un gran numero di osservazioni geologiche.
Ogni strato di roccia corrisponde a un’epoca diversa e incorpora fossili che testimoniano delle forme di vita che si sono alternate sulla Terra. Negli strati risalenti a 66 milioni di anni fa si osserva un’improvvisa diminuzione delle specie che abitavano il pianeta. Lo strato limite, quello che divide le due Ere, viene chiamato strato K-Pg.
A Gubbio, Walter e Luis Alvarez si imbatterono in un sottile strato argilloso particolarmente interessante. Lo strato era proprio nella zona K-Pg e all’analisi chimica rivelava una notevole presenza di iridio, un metallo raro nella crosta terrestre ma abbondante nei meteoriti. Analoghe concentrazioni furono individuate anche in altre regioni del globo, sempre in prossimità dello strato K-Pg. La sottigliezza dello strato provava che il deposito di iridio era avvenuto in un periodo molto breve, come nel caso di un impatto. E la concentrazione permetteva di calcolare la quantità totale di iridio giunta sulla Terra. Secondo gli Alvarez, l’iridio apparteneva ad un asteroide con un diametro di 10-15 chilometri che, scontrandosi con la Terra, aveva causato la quinta estinzione di massa.
DATO CHE I CRATERI da impatto sono venti volte più estesi dell’oggetto che li ha generati, i geologi abbastanza audaci da credere all’ipotesi di Alvarez & Alvarez si misero a caccia di un cratere largo circa 200 km. Un cratere così grande, nello Yucatan, era stato scoperto già negli anni ’50 dalla società petrolifera messicana Pemex. Ma per non favorire eventuali concorrenti nella ricerca di giacimenti, la compagnia non divulgò i dati. Le analisi sullo strato K-Pg in giro per il mondo restrinsero però il cerchio intorno all’area caraibica, costringendo la Pemex a divulgare i dati. Nel 1991, il luogo dell’impatto fu identificato definitivamente nel cratere di Chicxulub. Dopo ulteriori analisi, nel 2013, il gruppo di ricerca di Paul Renne dell’università di Berkeley (Usa) ha stabilito che tra i due eventi sono trascorsi al massimo 32mila anni, un’inezia per eventi avvenuti 66 milioni di anni fa. L’ipotesi visionaria degli Alvarez oggi è la teoria più accettata dalla comunità scientifica.
MA NON È L’UNICA possibile. A lungo, per esempio, si è ritenuto che la quinta estinzione fosse spiegabile con la deriva dei continenti o l’attività vulcanica. 66 milioni di anni fa l’India si trovava nei pressi del Madagascar e ospitava eruzioni violentissime in grado di provocare mutamenti climatici planetari. Nessuna ipotesi può essere esclusa definitivamente, ma i dati per ora pendono a favore dell’asteoride.
Le evidenze hanno spronato gli scienziati ad avanzare ipotesi ancora più visionarie sull’origine delle estinzioni di massa. La fisica teorica statunitense Lisa Randall dell’università di Harvard, ad esempio, sostiene che il legame tra catastrofi ecologiche e collisioni spaziali sia ancor più profondo. E troverebbe una spiegazione nella struttura profonda della Via Lattea.
La sua teoria è presentata in un libro intitolato L’universo invisibile, appena pubblicato dall’editore Il Saggiatore nella traduzione di Giovanni Malafarina. Si basa su un dato empirico: i cicli di aumento e diminuzione delle specie biologiche avvengono con una certa regolarità, e altrettanto emerge dalla datazione dei crateri da impatto rinvenuti sulla superficie terrestre. Randall, una delle più autorevoli cosmologhe, sostiene che questa periodicità derivi dall’interazione tra Sistema Solare e Via Lattea. Il Sole, infatti, ha una leggera oscillazione che lo porta ad attraversare il piano di rotazione della galassia, dove si concentra la maggior parte della materia e la gravità è più forte. Questo spiegherebbe l’aumento periodico delle collisioni con i corpi celesti circostanti.
SECONDO RANDALL, però, la densità della materia visibile non spiega perché queste oscillazioni avvengano ogni 30 milioni di anni. Per giustificare un periodo così breve, suggerisce la scienziata, è necessario supporre che la Via Lattea contenga un disco di «materia oscura». Si tratta di un tipo di materia ancora sconosciuto: secondo la maggioranza dei cosmologi costituisce la maggior parte della massa presente nell’universo e si manifesta solo attraverso la gravità.
Se Randall avesse ragione, dai dati sulla vita terrestre potremmo scoprire la verità sull’universo più misterioso, in una sorta di astrologia al contrario. Pure speculazioni, certo, e se non provenissero da una scienziata così autorevole forse non sarebbero nemmeno prese sul serio. Ma chi si occupa di estinzioni e meteoriti ha imparato a non scartare nessuna ipotesi.
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