Quello del capitalismo finanziario è «un tempo immobile, il tempo del presente, solo del presente», nel quale un’ottica di breve periodo diventa funzionale a obiettivi di guadagno immediato, di rendita calcolabile in giorni e in ore, di consumo dell’inessenziale. La temporalità del capitale è una temporalità esclusivamente quantitativa che ignora le dinamiche reali e profonde dei corpi umani individuali e collettivi. Il tempo infatti è la stessa umanità, è «la vita che viene avvertita nel suo temporale viversi» e la cui «svalutazione è la nostra vita impoverita». Una vita che sembra dunque smarrire la complessità qualitativa del mondo in un puro dato numerico, la cui valutazione è affidata a soggetti oscuri e sin troppo coinvolti, i quali «rendono il reddito, così determinato, una quantità astratta. Questo fa capire anche quanto un rating o un qualunque altro giudizio su un’impresa siano davvero molto opinabili, legati a un esile filo di interessi nonché di decisioni a volte anche assunte in maniera molto arbitraria».
Il crimine più radicale della finanza che domina la politica e le relazioni è dunque la fine del tempo vissuto dei rapporti personali, annichilito nel tempo convenzionale di milioni di scambi virtuali che avvengono nello stesso istante: «Alle attese e ai timori dei viventi che dirigono si sostituisce il gioco senz’anima e senza tempo delle procedure finanziarie», il cui esito «è distruzione di tempo presente, di vita reale, mentre in cambio si offrono fantasmi di futuro».
Il più insidioso, perché inavvertito e apparentemente moderato, di tali fantasmi è il riformismo, «vero mito del nostro tempo; né il profitto, né il capitale, né la ricchezza individuale hanno ottenuto tanto consenso quanto ne ha ottenuto l’idea che il mondo e il modo di vivere vadano continuamente modificati, senza sosta, senza fine».
Una patologia del nuovo invade i corpi sociali e le singole menti. Il valore di un’idea, di un progetto, di una proposta non risiede più nei contenuti ma nel presentarsi come nuovi rispetto all’esistente. Un nuovo, naturalmente, che è del tutto ideologico e finto poiché dietro il suo affaccendarsi per rottamare sta sempre la ripetizione del privilegio, dell’ingiustizia, del più vecchio dei gesti umani: il comando del più forte.
La riduzione della complessità del tempo alla sua sola forma presente è l’espressione più chiara del disperato desiderio che il potente – persona o struttura che sia – nutre di fermare il divenire per installarsi in esso come immobilità. Tutta la frenesia degli scambi finanziari che avvolgono la Terra in una rete senza più senso è l’apparenza dietro la quale sta un essere morti già da vivi, negando la molteplicità, il divenire, la multidirezionalità della vita e del tempo. Un archetipo che infinitamente ripete il medesimo ciclo, in modo che nulla sfugga alla prevedibilità e quindi al controllo delle forze ormai in gran parte impersonali che vanno distruggendo società e persone in nome di un«uscita dalla crisi» e di un futuro che non arriveranno mai ma ai quali sacrificare la sostanza viva del presente.