Visioni

«La figlia di Iorio»: destrutturando D’Annunzio

«La figlia di Iorio»: destrutturando D’AnnunzioUna scena da «La figlia di Iorio»

A teatro La messinscena curata per il Teatro di Buti da Dario Marconcini, rasenta la melodia, di una arcana ballata pastorale

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 23 dicembre 2023

Debitamente disossata, snellita nel testo e alleggerita nei tempi, ma non destrutturata (salva è la barbarica linfa che la pervade), la dannunziana Figlia di Iorio nella messinscena curata per il Teatro di Buti da Dario Marconcini, rasenta la melodia, densa e rarefatta insieme, di una arcana ballata pastorale. E allora, lì nell’aia, nella pubblica piazza o sul palcoscenico, tutto deve essere chiaro. Visibile e comprensibile senza inutili ghirigori e barocchismi da mattatori. Alla luce del sole o delle fiamme. Dario Marconcini da sempre lavora per sottrazione, che sia Shakespeare, che siano le cantate dei Maggi o le tragedie classiche, che sia Pinter o appunto l’«immaginifico» Gabriele D’Annunzio. La profondità di campo, in senso scenografico e psicologico, ambienti e caratteri procedono all’unisono, è dettata dalla alternanza tonale delle voci, da un recitar cantando modulato con enfasi tellurica, antiaccademica, un gorgheggio popolare che nasce dal nostro retroterra melodrammatico, dalla disarmante quanto scultorea semplicità del gesto, anche quando comunica violenza e oltraggio, dalla postura melodica dei personaggi, dalla densità degli scambi, interludi e scene madri non fa differenza, una ispirazione che evoca Peter Brook, condivisa artisticamente negli anni butesi con i «vicini di casa» Jean Marie Straub e Danièle Huillèt.

IL PASTOSO versificare dannunziano della Figlia, dopo il setaccio liturgico di Marconcini, modula una serie di inquadrature, i passaggi clou della tragedia, come trame epifaniche scucite da un vecchio telaio contadino, ma liberate da ogni tentazione folclorica, riverberata semmai, vero tocco di classe, dall’eco di una delle celebri song di Lucian Berio dedicate a Kathy Berberian. Sono inquadrature interrotte da brevi pause al buio, neri fotogrammi che più che dovuti a ragioni tecniche di cambio di scena, dettano i tempi della coloritura narrativa, fino ad approdare all’inevitabile «la fiamma è bella», il proverbiale «final cut» reso da Maria Bacci Pasello (viscerale Mila di Codro) come una tarantella, un girotondo dionisiaco. Accanto a lei palpitava l’ispirato Aligi di Leonardo Greco mentre troneggiava con spessore d’incanto la Candia di Giovanna Daddi (suoi anche i costumi). Completavano il cast Gianni Buscarino (il padre), Irene Falconcini e Francesca Galli (le sorelle), Enrico Pelosini e Fabio Bartolomei.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento