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La fiabesca invenzione del gioco dell’oca

La fiabesca invenzione del gioco dell’oca

La storia Ideato durante l'assedio di Troia, nasconde segreti e rivendicazioni...

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 8 giugno 2024

Benché spesso evocata per dire la superficialità di una persona, di una donna nello specifico, l’oca è un animale che tradizionalmente accompagna storie e cosmogonie umane, simbolo carico di significati potenti e tutt’altro che giulivi.

Le oche sono spesso protagoniste di fiabe e miti vale a dire, come ben sintetizzato da Calvino, i cataloghi dei destini che possono darsi alle donne e agli uomini; il che dimostra quanto l’animale abbia a che fare con l’immaginario e gli archetipi di ogni parabola umana: il viaggio, la tensione verso l’alto, la purezza e l’infinito potenziale dell’infanzia, la creatività femminile e la combattività volta alla difesa.
E come spesso succede coi valori e i miti fondativi dell’esistenza, anche l’universo di situazioni e significati uranici connesso all’oca è racchiuso e veicolato sotto le spoglie amichevoli e accessibili di un intrattenimento, un gioco.

È così per le fiabe, i tarocchi, il calendario dell’Avvento, e per il Gioco dell’Oca.
Con spoglie e nomi diversi il Gioco, che il mito vuole inventato da un eroe omerico, passando anche per le mani di faraoni e mandarini è comparso in Occidente alle corti europee nella seconda metà del Cinquecento. Nella sostanza è giunto intatto ai giorni nostri, giusto un poco riveduto e corretto nella forma; capita anche ai giochi più moderni, come Risiko o Cluedo, di essere riediti in special edition dedicate ai trend del momento o geograficamente connotate: Monopoly esiste nella versione Custompoly appunto pronta ad essere customizzata col nome o il personaggio deciso dall’acquirente, nella pia illusione di un mondo di merci che rifletta pretese individualità.

Capita ancora al Gioco dell’Oca che di recente è stato proposto come gadget elettorale da un leghista desideroso di arrivare a Bruxelles per la terza volta: ed è l’Europarlamento, infatti, in questa versione, la casella di approdo finale, la sessantatreesima del gioco iniziatico che Palamede pare inventò per far passare il tempo ai Greci durante l’assedio di Troia.

Le caselle stop del cotillon elettorale sono contrassegnate con gli obbiettivi polemici cari al mondo della Lega: gestazione per altri, farina di grillo, Greta Thunberg, lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali, asessuali che il candidato buontempone rubrica sotto la sigla LGTBQXYZ+!?. Egli tra le altre cose ignora quel che Elio e le Storie Tese tra le altre cose sanno, cioè che la nostra vita è una sciarada: sulle prime sembra xxxxyx, e invece è zxxyxz; e non sa probabilmente neanche di essersi infilato in un antico percorso sapienziale che come traguardo non dovrebbe avere una poltrona ma il ritorno a casa e a se stessi.
E se a casa sua se ne stesse lo si potrebbe anche evangelicamente perdonare, anche tenendo conto di precedenti devianze del Gioco come la nazionalista datata 1916, ribattezzata «Gioco dell’Aquila», in polemica con quella austroungarica a due teste, dove il rapace caro a Giove venne preferito al palmipede che pure per gli antichi egizi era il simbolo geroglifico dell’Imperatore.

C’è stato anche «Il viaggio alla Terra promessa», realizzato negli Anni Trenta del secolo scorso, composto eccezionalmente da ottanta caselle su cui si svolgeva il percorso del giovane Balilla Trottolino per raggiungere i genitori affrontando pericoli grazie ai consigli di nonna Igiene. Poi nel Quarantaquattro è stata la volta del «Gioco delle tre oche», vale a dire soldati britannici, americani e sovietici. Le penitenze del gioco fascista erano imposte dalle caselle intitolate a Churchill, Roosevelt, Tito e zio Sam, lo slancio in avanti veniva dato dalle bandiere di combattimento della Repubblica Sociale, del Terzo Reich e del Sol Levante, l’arrivo era l’Ordine Nuovo.

Se il Gioco si è fatto tanto spesso strumento di propaganda e marketing è non solo per la popolarità e linearità delle regole del percorso ma anche per il suo portato totemico illustrato molto bene da Roberta Borsani nel piccolo e prezioso libro Sul dorso di un’oca edito da Moretti&Vitali Editori e dedicato al simbolismo iniziatico del Grande Gioco.

Tralasciando le pure numerose letture in chiave massonica esistenti, l’ottima analisi dell’autrice si concentra sull’aspetto fenomenologico, sia dell’itinerario nel suo insieme che delle caselle speciali che lo interrompono, dedicate a situazioni limite della vita e rappresentate da ponte, locanda, prigione, labirinto e morte.

Sono topoi delle fiabe, del folclore, dei miti, delle rappresentazioni religiose che li hanno recepiti (locanda, pozzi e ponti compaiono anche nei presepi) nella cornice di un viaggio a forma di spirale, come il sentiero di Oz, il serpente mesopotamico o la Via Lattea, in una trama mossa dal caso e avviata da un incedere, da quel «cammina cammina» all’inizio di ogni umano e avventuroso errare.

Cammino e oca compaiono spesso appaiati nel Medio Evo, lo stesso pellegrinaggio di Compostela è associato al simbolo della zampa palmata del pennuto, animale che procede per le strade del mondo, ma è a suo agio in acqua come in volo.

Sul dorso dell’oca (interscambiabile con il cigno in molte storie) avvengono viaggi di formazione come nel caso di quello meraviglioso di Nils Holgersson, libro che nasceva come testo di geografia per gli studenti della sua autrice – insegnante e poi Premio Nobel Selma Lagerlof, Grazia Deledda scandinava – dove le oche selvatiche si comportavano come odierni droni.

In volo, nelle fiabe, si ritorna a casa e interessante nella ricognizione di Roberta Borsani, l’intreccio col tema del reduce e del suo arrivo attraverso la mediazione dell’oca: così succede ad Hansel e Gretel e alla Piccola Guardiana d’Oche, nella raccolta dei Grimm; e anche il redivivo per antonomasia, Ulisse, è annunciato dall’apparizione di oche, nel sogno di Penelope.

L’oca compare come animale tutelare al centro del tabellone di gioco e nelle caselle fortunate a cui si mescolano quelle infauste, come nei calendari; e forse non è un caso che sempre a Palamede, uno che teneva testa a Ulisse che poi lo avrebbe fatto fuori, si attribuisca anche l’invenzione della scansione numerata del tempo in giorni, mesi ed anni, come pure quella dei dadi, ordine materiale del mondo in cui torna il numero dodici a forza di lanci doppi; l’alea, che per i latini indicava il dado stesso, gioco di sorte coi dadi, è termine finito a significare per esteso l’azzardo. Uno degli etimi della parola, secondo Isidoro di Siviglia, ricondurrebbe a un nome di un altro soldato epico, Alea appunto, che immaginò i dadi annoiato durante le pause della guerra di Troia.

Curioso che l’invenzione del gioco e gli strumenti di misura del tempo vengano collocate a bordo dei campi di battaglia. L’agone e la competizione ludica e sportiva (che lo sport è gioco, almeno nel lessico) sono del resto i luoghi dove si sublima la guerra.

Competizione, sorte, maschera e vertigine, sono le categorie delle pratiche ludiche nella classificazione di Roger Caillois in I giochi e gli uomini cui Borsani fa riferimento nel testo e a cui torna da par suo Stefano Bartezzaghi in Chi vince non sa cosa si perde, saggio appena edito da Bompiani dove lo scrittore e semiologo approfondisce la disamina intrapresa alcuni anni fa su Doppio Zero sulle diverse incarnazioni dell’agonismo: nel gioco, nello sport (con uno sguardo specifico al tennis caro a David Foster Wallace), nella società, nell’economia e nelle relazioni internazionali.

Il cammino nelle caselle dell’oca, affidata ai dadi e al vorticare nelle caselle, si inscriverebbe nella categoria ludica della vertigine (come l’altalena) e della sorte: pertanto il tabellone, come ogni gioco condotto in un contesto sano, può essere palestra per impratichirsi con l’accettazione dei tiri della sorte e al contempo tendere verso qualcosa che sta più in là e che sfugge alla morsa ripetitiva del quotidiano.

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