La ferita e la cura, viaggio nella «salvezza» della parola
Paul Klee, «Comedy» (1921)
Cultura

La ferita e la cura, viaggio nella «salvezza» della parola

POESIA / 2 «Amuleti», una silloge di Lorenzo Pataro edita da Ensemble
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 5 novembre 2022

È giovanissimo, Lorenzo Pataro, essendo poco più che ventenne. Eppure questa sua seconda raccolta, Amuleti, appena uscita da Ensemble (pp. 100, euro 13), lo rivela come un poeta già vero e forte. Hanno ragione tanto Elio Pecora nella prefazione, quando scrive che «Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori», quanto Daniele Mencarelli nella pur brevissima nota finale, quando riconosce all’autore che «La sua è una parola di luce e vertigine, di visione e tragedia. È poesia».

La poesia di Pataro è di luce e di tragedia insieme: un sentimento di tragedia sembra generarla, ma la luce sembra costituirne un possibile orizzonte, come la luce del giorno al termine della notte, o come una promessa di bene. E non è un caso che «notte» e «luce» siano parole così presenti lungo l’intera raccolta, ciascuna delle due quale portatrice di un valore che assume il proprio senso in relazione all’altra: la notte come un vuoto e come metafora di una ferita; il giorno come possibile compimento dell’attesa, come luogo di realizzazione delle promesse.

ANCHE LA PAROLA «FERITA», del resto, ricorre a sua volta continuamente, nei versi, ed è anzi quella che più di tutte, forse, ne segna la temperatura: perché è la parola che più di tutte, all’interno della raccolta, sembra svelarne e testimoniarne lo spirito. La vita è ferita, sembra voler dirci Pataro, ma non a morte: curarla è possibile – e di più: è un dovere.
Il tono dei versi è spesso lirico (al di là del fatto che talora non si tratta di versi veri e propri, bensì piuttosto di piccoli poemi in prosa); e quindi il discorso sembrerebbe esclusivamente privato e personale.

Ma è un’apparenza: perché in realtà la sensibilità di Pataro è anche sociale, comunitaria, perfino politica. Certo, i versi hanno un interlocutore cui si rivolgono, un «Tu», che ha tutte le sembianze di una presenza in carne e ossa, un amore che vive e dorme accanto all’io poetante: ed è questa stessa presenza a conferire intimità al discorso. Ma il respiro è molto più ampio, dietro la forma: le ferite di cui Pataro ci parla sono ovunque e riguardano tutti, gli esseri umani e le relazioni fra loro come il creato, e quel «Tu» può essere letto allora anche come un «Altro» che riguarda ciascuno di noi.

È DENTRO QUEL «TU» che Pataro cerca la salvezza, quasi come un riscatto; ma è come se volesse dirci anche che non dovrebbe esistere una cesura fra tutte le dimensioni nelle quali la vita si esprime. Amare una persona, in fondo, non dovrebbe significare che questo: occuparsi del mondo, nella misura in cui ciascuno di noi, nessuno escluso, lo incarna.
Non si può essere sicuri che le promesse verranno mantenute, né che le aspettative verranno esaudite.

Pataro lo sa bene, al punto che i suoi versi rimangono sempre in bilico fra attesa e speranza.

Ma la cura ha un valore in sé stessa: «La tua mano sfalda il muschio dalla quercia/ e col gesto che contiene ogni stagione/ ripara le ferite delle ghiande/ ogni volo in picchiata ghermito dalle volpi/ il rovescio di ogni attesa è nella cura». È solo la cura, di ogni «Altro» e del mondo di cui ogni «Altro» rappresenta un’espressione, a tenerci aggrappati alla vita, alle cose. Ci salveremo? O sarà solo un’illusione, e saremo scartati? «Capire che l’Altro è una fiamma:/ se la tocchi col dito/ o la spegni o la bruci»: è solo questo che possiamo fare, non c’è alternativa.

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