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La felpa razzista e le colpe dei lapsus

La felpa razzista e le colpe dei lapsus

Habemus Corpus Il pensiero razzista scorre nelle vene come un sangue infetto, colpisce a tradimento non solo il soggetto a cui è rivolto, ma anche il portatore del virus, rivoltandoglisi contro.

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 16 gennaio 2018

Il pensiero razzista scorre nelle vene come un sangue infetto, colpisce a tradimento non solo il soggetto a cui è rivolto, ma anche il portatore del virus, rivoltandoglisi contro. In pochi giorni ci sono stati tre esempi di infezione. Il solito Trump prima ha definito «cesso di paesi» Haiti e Salvador, salvo poi dire che nessuno è meno razzista di lui, caso tipico di autoassoluzione che convince solo il diretto interessato. Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla guida della regione Lombardia, dopo aver detto che bisogna salvaguardare la razza bianca dall’invasione degli immigrati, ha spiegato che si è trattato di un lapsus, dimostrando così di non conoscere il significato di lapsus che è tale proprio perché svela un pensiero nascosto. Infine H&M, azienda svedese che produce abbigliamento a basso costo, sul sito inglese ha promosso due felpe indossate da due bambini, uno bianco e l’altro di colore. Su quella del primo c’è una tigre con la scritta «Giungla di Mangrovie. Esperto di sopravvivenza». Su quella del secondo campeggia la frase «La scimmia più alla moda della giungla». Apriti cielo. Quando in Sudafrica hanno visto questo trattamento, gruppi di persone si sono giustamente indignate e, poi, scatenate nei punti vendita H&M scaraventando a terra manichini, abiti, espositori e danneggiando arredi.

La compagnia prima ha cercato di correre ai ripari chiedendo scusa e dichiarando «Abbiamo sbagliato e siamo d’accordo sul fatto che, anche se il razzismo è involontario, passivo o casuale debba essere sradicato ovunque esista». Poi, visto che le proteste continuavano, ha chiuso temporaneamente alcuni punti vendita sudafricani. Mi viene in mente quella barzelletta milanese in cui una signora rifiuta di affittare un appartamento a un signore di colore e, di fronte alle rimostranze di lui che le chiede se per caso è razzista, lei risponde: «Razzista mi? L’è lù che l’è negher».

Come a dire, «Io sono a posto con la mia coscienza. È colpa tua se sei diverso». Ora, da Trump ormai ci aspettiamo di tutto, da un leghista pure, ma da un’azienda svedese uno scivolone così era meno prevedibile. Che cosa gli è venuto in mente? O forse sarebbe meglio dire, che cosa gli si muove nel profondo delle viscere? La risposta la dà la loro frase di scuse. Lo hanno chiamato razzismo involontario, passivo o casuale, ma proprio qui sta il punto. Che cosa vuol dire razzismo involontario? Che si dice una cosa senza pensarla. O forse che nel profondo la si pensa davvero.

E passivo? Che si ripete senza riflettere qualcosa che viene detto abitualmente. E casuale? Che passavi di lì e per caso ti è venuta in mente quella cosa, ma non è colpa tua, no, è colpa del caso. E invece no, il responsabile è proprio chi parla, e lo è tanto, perché in tutti e tre i casi si tratta, come dice appunto Attilio Fontana, di lapsus. Il lapsus, se vogliamo dar retta a Freud che di queste cose se ne intendeva, non è mai innocente perché non è uno errore non voluto, una distrazione, uno scambio casuale, ma lo svelamento di contenuti rimossi, l’emergere di un pensiero profondo.

Non si tratta quindi di governare la lingua per tenerla a freno o farla correre in maniera conveniente, che di correttezza apparente non sappiamo proprio che farcene. La questione è che cosa davvero si pensa, come veramente si considerano i neri, gli immigrati, i diseredati. Sono diversi? Fanno paura? Se nel profondo la risposta è sì, bisognerebbe allarmarsi e chiedersi perché la si pensa così. E poi ricordarsi che ognuno di noi, agli occhi di un altro, può sembrare diverso e diventare un imbarazzantissimo lapsus.

mariangela.mianiti@gmail.com

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