La famiglia di Hiroshi Harada
Maboroshi Quando si parla di animazione giapponese le prime immagini ed i primi nomi che vengono subito in mente sono i soliti, diversi da generazione a generazione
Maboroshi Quando si parla di animazione giapponese le prime immagini ed i primi nomi che vengono subito in mente sono i soliti, diversi da generazione a generazione
Quando si parla di animazione giapponese le prime immagini ed i primi nomi che vengono subito in mente sono i soliti, diversi da generazione a generazione, ma di solito legati da un modo di intendere l’arte in questione abbastanza similare. Se è vero che la popolarità planetaria che l’animazione giapponese è riuscita a raggiungere negli ultimi decenni è una pietra miliare della cultura popolare e dell’immaginario globale, è però altrettanto vero che esistono delle zone minoritarie e degli autori che cercano di esplorare e portare avanti discorsi assai diversi attraverso i disegni animati. Koji Yamamura e Kunio Kato, che con i loro lavori sono stati nominati fra i migliori cortometraggi animati agli Oscar, sono forse i casi più conosciuti, ma in Giappone c’è un nutrito gruppo di artisti ed artigiani che lavorano con l’animazione in modi e con poetiche assai diverse, anche amatoriali, ancora tutte da scoprire.
Uno di questi è sicuramente Hiroshi Harada, animatore ed autore che nelle sue opere fa confluire molte delle correnti artistiche sotterranee che percorrono l’arcipelago giapponese. Non certamente giovane, ha 57 anni, Harada è famoso, in una certa nicchia, sia in patria che all’estero per la trasposizione per il grande schermo di Midori (1992).
Lavoro proibito e sequestrato in patria, composto di limited animation, quasi una continuazione dello stile dei teatrini kamishibai, spettacoli itineranti che da secoli girano il Giappone, e con tematiche di violenza, su animali e su persone, ed incesto, così come presenti nel lavoro originale di Maruo Suheiro. Anticommerciali per eccellenza, i film che Harada concepisce e che realizza praticamente da solo, vengono realizzati nei suoi ritagli di tempo, sbanca il lunario principalmente come animatore per serie tv generaliste, per cui per le opere che desidera davvero realizzare sono frutto di pura passione e con attese lunghissime. È uscito lo scorso dicembre in alcuni, pochissimi in verità, cinema indipendenti giapponesi, il suo ultimo progetto, dalla gestazione come si diceva lunghissima, iniziata negli anni novanta ha visto la luce quindi dopo più di vent’anni di lavoro intermittente. Intitolato Horizon Blue, è un lungometraggio tratto da un manga di Yoko Kondo e realizzato, come abitualmente accade per i lavori del giapponese, con un tratto grezzo, volutamente semplice, quasi infantile e «brutto», ma proprio per questo molto funzionale al mondo che Harada vuole creare. La storia narra infatti di una ragazza introversa e del suo percorso nella vita adulta, dalle scuole superiori alla vita lavorativa, fino ad un matrimonio che fallisce miseramente e che la fa entrare in profonda crisi e poi anche in un manicomio.
Siamo negli anni novanta come si diceva, ed nel mondo creato da Harada l’amore è quasi completamente assente ad ogni livello. La famiglia è dipinta, come nei migliori lavori di Sion Sono, un tritacarne e fabbrica di odio e gelosie, per di più imbevuta di alcolismo, indifferenza e violenza sui minori, il tutto in quelle zone spesso dimenticate della società giapponese che abitano al confine della povertà, ma non troppo da diventare appariscenti. Horizon Blue non è solo limited animation come si diceva, ma anche inserti video a bassissima risoluzione girati nei novanta. Verso la fine del lavoro questo stile misto diventa quasi documentario nella sua volontà di esplorare problematiche che solcano la società nipponica, come appunto alcolismo, problemi mentali e difficili relazioni fra genitori e figli, il tutto in relazione ai grandi mutamenti avvenuti nell’arcipelago nel dopoguerra. Il film è un salto ed uno sguardo nella parte oscura dell’essere umano e della società. Ma paradossalmente nel suo non nascondere niente, finisce quasi per essere un messaggio di speranza.
matteo.boscarol@gmail.com
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