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La falsa coscienza del Fertility Day

La falsa  coscienza del Fertility DayLa campagna del ministero della salute

La campagna del ministero L’improvvida trovata di Betarice Lorenzin è una buona occasione per capire che cosa sia l’ideologia nel tempo, che si pretende orgogliosamente postideologico, nel quale viviamo

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 3 settembre 2016

Dalle sciocchezze, a volte, si possono apprendere molte cose. E di sciocchezze il nostro ministero della salute è stato un formidabile centro di produzione. Ai suoi vertici abbiamo visto susseguirsi chi si proponeva di regolamentare le porzioni dei ristoranti come chi stilava liste di animali feroci fino a una taglia sopra il barboncino. Ma la ministra Beatrice Lorenzin si è avventurata su un terreno decisamente più delicato e rischioso: il controllo «pubblico»del corpo delle donne.

In due slogan della campagna ministeriale per la «fertilità» («fertilità bene comune» e «prepara una culla per il tuo futuro») Bia Sarasini indicava chiaramente su queste pagine il contenuto essenziale dell’ideologia trasmessa dall’iniziativa promozionale del fertility day: la sottrazione del corpo femminile alla singola persona che lo possiede per consegnarlo alla funzione e al controllo che un sistema di poteri gli attribuisce e gli impone. Ma oltre ogni specifico contenuto, l’improvvida trovata della ministra è una buona occasione per capire che cosa sia l’ideologia nel tempo, che si pretende orgogliosamente postideologico, nel quale viviamo. Non si tratta semplicemente di un castello di manipolazioni eretto a protezione di interessi materiali che non possono rivelarsi per quello che sono (ciò che fu chiamato «sovrastruttura»), ma anche una macchina immateriale che produce realtà di vita, percezioni di sé e dell’altro, gabbie linguistiche, comportamenti e riflessi condizionati. Insomma, per voler usare un termine che più classico non si può, «falsa coscienza», prodotta dai rapporti sociali e, a sua volta, in grado di produrne.

Questa costruzione dell’ideologia segue due vie: la prima è quella prescrittiva che passa oggi non più per la voce dei predicatori ma per quella degli «esperti», prima di tradursi in programmi governativi. Non c’è, infatti, scelta politica che non possa trovare lo «studio» che ne certifichi l’ineluttabilità. A questa certificazione è affidata la garanzia del suo carattere «razionale» e «postideologico».

La seconda, quella che punta al «convincimento», consiste nel porre le domande in modo che la risposta non possa che essere quella desiderata, nel proporre una descrizione della realtà che contenga già le soluzioni auspicate. Per fare un solo esempio, nella campagna per il fertility day è sottinteso (e sottaciuto) che l’equilibrio demografico di una nazione debba essere garantito dalla «prolificità» dei nativi, non dagli immigrati e dalla loro «fertilità», dalla quale piuttosto converrebbe difendersi. Si vede bene qui, come, nelle immagini e nei messaggi, la questione del genere e quella della «razza» entrino in stretto contatto tra loro. Ma perché questa chiamata dei «nativi» alla procreazione? Perché altrimenti i «valori», le «tradizioni», gli «usi e i costumi», l’«identità» delle nazioni finirebbero con l’essere, se non travolti, almeno profondamente modificati dalla nuova composizione demografica. Quanta letteratura è stata scritta sulla spensierata «fiacchezza» di popoli invecchiati, pronti ad essere sopraffatti dall’esuberante, giovanile energia di quelli emergenti? Ma, almeno, i cantori del tramonto dell’Occidente erano intelligentemente consapevoli che c’era ben poco da fare.

Se questi nessi e queste inquietanti implicazioni sono completamente occultati dalla «falsa coscienza» ministeriale, essi sono invece ben presenti in molti dei commenti che esaltano in rete la campagna di Beatrice Lorenzin, richiamandosi esplicitamente alla «difesa della razza». Una volta separata dalla soggettività delle donne e consegnata nelle mani dell’«interesse nazionale» la fertilità è pronta per trasformarsi in uno strumento e una bandiera del nazionalismo.

L’ideologia possiede una sua trama che spesso è addirittura impenetrabile a coloro che la producono. E’ merito delle sciocchezze, e del sarcasmo che le dileggia, metterla in luce. C’è però una ragione assolutamente banale che spinge i ministri della salute a mettere in scena spassose caricature della biopolitica. Il neoliberalismo li ha infatti trasformati in gestori dei tagli e amministratori di risorse sempre più scarse. Così la predicazione della «buona vita» prende il posto della salvaguardia della sua qualità. In diversi paesi si punta ad escludere dalle cure coloro che si sono resi colpevoli di vite viziose.

L’accento passa dalla libertà del singolo di fare uso del suo corpo senza doverne render conto a nessuno, al peso della sua condotta sui bilanci dello stato. La salute pubblica abbandona il suo carattere universalistico e incondizionato per trasformarsi in una sede di giudizio morale, concordato con il ministero delle finanze: l’etica deve essere economica perché l’economia possa essere etica. Fatto sta che, come è noto, predicare la castità ai passeri non ha mai conseguito grandi risultati. Tutt’al più si può procedere a impallinarli.

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