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La fabbrica dello streaming

La fabbrica dello streamingUn’immagine dal sito di Bandcamp

Storie/Piattaforme che determinano come fare musica omogeneizzando schemi creativi e sonori Il benessere del mercato digitale non tocca gli artisti ma la grande industria. Per questo James Blake ha lanciato un’alternativa a Spotify. Il ruolo di Bandcamp, oasi di stili indipendenti anche in grado di incentivare i legami tra artisti e fan. Ma qualcosa comincia a scricchiolare

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 8 giugno 2024

«La prossima volta che il vostro artista preferito diventa virale, ricordatevi che non sta guadagnando un cazzo. Il lavaggio del cervello ha funzionato, ora le persone credono che la musica sia gratis». Sono le parole con cui James Blake (in tour in Italia l’8 luglio all’Anfiteatro del Vittoriale, Gardone Riviera, Brescia e il 9 all’Auditorium di Roma), nominato ai Grammy, ai Brit Awards e vincitore di un Mercury Prize, ha espresso la sua frustrazione nei confronti del music business.
Non è l’unico a manifestare lo stesso disagio creato dall’insostenibilità del sistema dello streaming di musica. Nonostante l’industria musicale stia registrando una fase di crescita economica, infatti, a beneficiarne sono le multinazionali non gli artisti. Per questo, James Blake ha recentemente lanciato una propria alternativa a Spotify, il più grande distributore di streaming al mondo e Kanye West sta considerando la possibilità di ritornare alla vendita della sua musica tramite download digitale, il metodo più diffuso prima dell’avvento dello streaming.

ALL’INIZIO
Nei primi anni del Ventesimo secolo, con l’emergere della musica popolare registrata su supporti destinati alla vendita di massa (la popular recorded music che oggi chiamiamo pop), nasceva il legame tra musica e industria. Jazz, blues, rock, folk, country, soul e classica venivano immessi nel mercato di massa dando vita alla musica-prodotto destinato al consumo del grande pubblico.
Durante il secolo scorso, l’industria e la creatività musicale hanno mantenuto un rapporto mutualmente vantaggioso. Con l’avvento della distribuzione digitale, questo rapporto è cambiato e l’influenza che il mercato ha sulla creatività è diventata una gabbia sempre più stretta, che ormai costringe il processo creativo degli artisti. L’equilibrio complicato tra capitalismo e creatività, mercato e musica, consumo e cultura sta andando in pezzi. Oggi, la maggior parte della musica è prodotta e immessa nel mercato con l’obiettivo di massimizzare il numero di stream nel minor tempo possibile. Le statistiche di ascolto sono diventate un criterio intrinseco alla musica pop, trasformata in platform music (la musica nell’era della società delle piattaforme), cioè merce fra altre merci, prodotto industriale il cui valore all’interno di una più vasta economia dell’attenzione è rappresentato unicamente dalla sua performance numerica. Da espressione artistica industrializzata, la musica pop è diventata prodotto industriale fabbricato in modo strettamente regolato dalle richieste del mercato. In questo stesso panorama opera Bandcamp, piattaforma di distribuzione musicale che ha fatto della redistribuzione verso i creatori di musica la sua peculiarità nel sistema delle piattaforme. Bandcamp tiene in vita quella postura divergente rispetto alle abitudini del mercato, memore in qualche modo delle esperienze di produzione alternative che hanno vivacizzato la cultura musicale del secolo scorso.
Quella della musica è stata tra le prime grandi industrie culturali a trasformarsi con il nascere delle piattaforme digitali, le quali hanno introdotto e normalizzato l’idea di musica gratuita. Con la promessa di poter ascoltare in qualsiasi momento tutta la musica del mondo, le piattaforme di streaming hanno modificando le abitudini degli utenti, portandoli a spostare i loro acquisti dai singoli prodotti musicali verso un abbonamento al servizio di streaming. Così le piattaforme si sono posizionate fra la musica e il pubblico, intermediari in nome della disintermediazione. Garanti della libertà di ascoltare tutta la musica del mondo e promotori dell’idea di musicisti finalmente liberi di caricare la propria musica direttamente sulle piattaforme per farla ascoltare a tutto il mondo. Le evoluzioni tecnologiche e i mutamenti culturali che hanno portato a questo risultato sono partire nel secolo scorso e includono la democratizzazione dei mezzi di produzione musicale e la dematerializzazione della musica.
In un processo iniziato negli anni ’90, la creazione musicale ha gradualmente smesso di essere condizionata dalle possibilità tecnologiche esclusive degli studi di registrazione professionali, diventando accessibile a chiunque, senza bisogno di grosse risorse economiche e preparazione musicale. Questo processo di democratizzazione dei mezzi di produzione musicale ha trasformato lo studio di registrazione in uno strumento alla portata di tutti. Così, proprio mentre nei primi anni 2000 un esercito di nuovi produttori casalinghi era alla ricerca di un’audience a cui far ascoltare la propria musica, MySpace e il Web 2.0 creavano un nuovo pubblico grazie alla inedita possibilità di interazione diretta con gli artisti.
MySpace, un social network ante litteram nato nel 2003, eliminava la distanza tra artisti e pubblico, immergendoli nello stesso ecosistema, permettendo ai musicisti di far ascoltare a tantissimi utenti la propria musica, senza l’intermediazione di un’etichetta discografica o il bisogno di un ufficio stampa. Fare musica nel proprio studiolo personale, caricarla su MySpace e farla ascoltare al mondo era un processo rivoluzionario quanto semplice. Oltre alla democratizzazione dei mezzi di produzione musicale e la seguente disintermediazione del rapporto fra artisti e pubblico, il terzo cambio tecnologico e culturale è stato innescato dalla progressiva dematerializzazione dei supporti di vendita della musica. In una trasformazione fondamentale del rapporto tra musica e mercato si è passati dai dischi in vinile ai compact disc, poi dai file mp3 agli stream. In questo modo la musica è tornata a essere l’arte immateriale delle sue origini, distribuita tramite i Dsp (Digital service providers), ossia le piattaforme di streaming.

CONSEGUENZE
Queste trasformazioni hanno generato negli artisti una sorta di credo populista nella fine della casta, cioè il vecchio music business intermediato dalle multinazionali discografiche e, al contempo, una fiducia nel principio uno vale uno, secondo il quale chiunque sia dotato di idee e buona volontà può diventare una star della musica. In verità, il nuovo assetto dell’industria ha portato a un ridimensionamento più che a un incremento della libertà degli artisti.
Mentre la musica disintermediata, quella prodotta da chiunque e disponibile ovunque è narrata come portatrice di libertà creativa e nuove opportunità per i talenti emergenti, abbiamo davanti agli occhi e nelle orecchie qualcosa di molto diverso. La ricerca intensiva del successo, della hit da parte di una folla di musicisti in cerca di un posto al sole, ha portato ad una progressiva semplificazione del pop in schemi armonici, ritmici, strutturali e sonori codificati a tal punto da essere facilmente replicabili da software. La conseguenza dell’estrema semplificazione e standardizzazione della musica pop, è che stiamo già ascoltando musica generata dall’intelligenza artificiale. L’avvio di una graduale esclusione degli artisti ritornellari dal processo creativo, in un fenomeno accostabile a quello che, nelle fabbriche, ha visto la sostituzione degli operai con i robot. Loud&Clear, il report annuale di Spotify sull’economica dell’industria musicale, evidenzia la crescita del settore e conferma la posizione di Spotify come il maggiore distributore di musica digitale al mondo.
Il 2023 viene descritto come un anno straordinario per la musica, inclusa quella indipendente. Purtroppo, a beneficiare del benessere del mercato sono le multinazionali e non gli artisti. Molti di loro, infatti, non riescono più a sostenersi economicamente con la musica, poiché i Dsp e le multinazionali discografiche, grazie alla loro posizione dominante, determinano quanto (sotto) pagarli. Come accaduto nel ’900, al dispotismo del music business, si oppone una richiesta di scelta alternativa al mercato, nata all’interno del sistema stesso. Bandcamp è una piattaforma che genera profitto distribuendo e vendendo musica. Rispettando l’ecosistema musicale in cui opera, nutrendo anziché prosciugando la scena musicale, incarna proprio quella quota di indipendenza all’interno della popular recorded music contemporanea.
Bandcamp è una piattaforma diversa dalle piattaforme di streaming come Spotify, Apple Music e Amazon Music. Un’azienda che vive nello stesso loro mercato, ma occupa in qualche modo il ruolo e l’influenza che negli ultimi trenta anni del secolo scorso erano appannaggio delle istanze indipendenti, quelle che mettevano in discussione quello stesso mercato in cui erano immerse. Energie che negli ultimi anni del secolo scorso hanno dato vita a movimenti seminali come il grunge, il britpop, l’hip-hop alternativo e l’elettronica.

GESTO DI RICERCA
Nell’era pre-internet, quei movimenti hanno trovato il loro pubblico attraverso stazioni radio universitarie o pirata, club underground e fanzine. Beck, The Prodigy e Sonic Youth sono alcuni fra i frutti di quelle istante alternative, nate dalla ricerca di una relazione diversa ed etica fra creatività e profitto. Parte del successo di Bandcamp dipende proprio dal portare avanti quella relazione etica in uno spazio nel quale gli utenti possono fare esperienza di un modello diverso da quello rapace degli altri servizi di streaming.
Bandcamp mantiene in vita il gesto di ricerca, scoperta, dialogo e scambio. Quella partecipazione che ha fatto prosperare scene indipendenti, tra cui la dance o la trap, che sono esempi del travaso di nutrienti che continua ad avvenire fra i movimenti indipendenti e il mercato mainstream. Bandcamp offre la possibilità di distribuire la musica in modo personalizzato, agli artisti e alle etichette discografiche che possono customizzare i propri profili con loghi, grafiche, collegamenti ai social e informazioni su date e merchandising. Questa possibilità di personalizzazione, che ricorda quella che ha reso celebre MySpace, favorisce una connessione più autentica con il pubblico, il quale, mentre è su Bandcamp, non sta usando una piattaforma ma sta visitando la pagina/negozio di un’artista, gestita dall’artista all’interno di una piattaforma. Bandcamp quindi non è il prodotto, ma l’infrastruttura che rende acquistabili i prodotti musicali direttamente dagli artisti. Funge da fornitore di un servizio che percepisce una percentuale sulle vendite.
La piattaforma non vende un abbonamento, ma musica. Gli artisti gestiscono le vendite di file, vinili, cassette, cd, magliette, poster, adesivi. Decidono il prezzo di vendita, da cui Bandcamp trattiene il 15%. «Bandcamp ritiene che la musica sia una parte indispensabile della cultura e, affinché questa cultura possa prosperare, gli artisti devono essere compensati in modo equo e trasparente per il loro lavoro». Così è scritto nella breve pagina di Bandcamp in cui è spiegata la gestione e la redistribuzione dei guadagni. La pagina omologa di Spotify è una lunga chiacchiera nella quale non ci sono cifre, non si capisce quanto viene ridistribuito agli artisti e si rimanda tutto ai singoli accordi che i singoli artisti hanno con vari intermediari. L’estrema chiarezza e semplicità della spiegazione del modello economico di Bandcamp diverge fragorosamente da quella di Spotify. Del resto, gli inizi aziendali di Spotify, uniti alla grande tradizione di pirateria della Svezia (Pirate Bay, uno dei più importanti siti di file sharing illegali anti-copyright è nato proprio in Svezia), possono far immaginare un modello economico con caratteristiche non ispirate primariamente al bene della comunità dei musicisti.
«Sono nato in Svezia e in Svezia siamo famosi per i software di pirateria» o «Spotify in realtà era meglio della pirateria», sono frasi di Daniel Ek, tra i fondatori di Spotify, che palesano un’altra caratteristica della nascita di Spotify: essere stato, in fondo, il rimedio a Napster, il primo sistema di scambio di file musicali fra utenti che a cavallo fra il vecchio e il nuovo secolo ha messo in ginocchio le multinazionali discografiche. Spotify è stata la soluzione supportata dall’industria discografica per arginare le perdite economiche create da Napster e dalla pirateria musicale a partire dalla fine del secolo scorso. Non a caso Sean Parker, cofondatore di Napster è passato a Facebook prima di entrare nel consiglio di amministrazione di Spotify. In un ritorno al possesso della musica e all’idea del suo valore come bene anche se dematerializzato, Bandcamp vende dunque musica non abbonamenti. Sarebbe, allora, più corretto dire che sono gli artisti a vendere la musica attraverso Bandcamp, aggiornato spazio alternativo al mainstream(ing). Artisti in favore dei quali, durante la pandemia, Bandcamp ha rinunciato alla propria percentuale di guadagno sulle vendite, registrando anche un significativo aumento delle transazioni. Artisti ai quali Bandcamp lascia l’intero incasso delle vendite durante iniziative come il Bandcamp Fridays, venerdì nei quali la piattaforma rinuncia alla sua percentuale, rimarcando una posizione divergente rispetto ai dogmi del music business.
Bandcamp è un negozio, non solo una piattaforma di streaming, anche se la musica acquistata si può ascoltare anche in streaming. La politica culturale e di mercato che Spotify e gli altri Dsp promuovono è un ascolto passivo in nome dell’anymusic anytime anywhere che spesso, per funzionare, sacrifica la qualità di ascolto della musica, danneggia, cioè, il prodotto stesso. «Vogliamo portare la musica a ogni singola persona in ogni momento della sua vita», ha dichiarato Daniel EK in un’intervista alla Abc.
Tutte le canzoni a disposizione anche quando lo streaming è difficile? Basta abbassare la qualità d’ascolto per garantire che il servizio funzioni. Bandcamp, al contrario, promuove un ascolto attivo e in alta qualità. L’azione che si compie nel negozio di Bandcamp è la stessa che, nel secolo scorso, si compiva entrando in un negozio fisico di dischi: camminare fra gli scaffali, scegliere cosa ascoltare ed eventualmente comprarlo. Gli scaffali nei negozi oggi sono le pagine degli artisti e delle etichette e il preascolto del disco avviene attraverso un player. Azioni compiute dagli utenti in un «attivismo» ben lontano dall’algocuratela, cioè la curatela passivizzante fatta dagli algoritmi che profilano gli utenti scegliendo per loro cosa ascoltare.
Nell’era della platform music la musica pop è prodotta come in una fabbrica che non chiude mai, da artisti operai i quali, per rimanere eternamente presenti nelle playlist, creano musica a ciclo continuo, come arma per competere nella gara per l’attenzione del pubblico. In questo processo, l’influenza delle piattaforme di streaming è schiacciante a tal punto da determinare il modo in cui la musica è prodotta, il tempo nel quale è prodotta e gli schemi creativi e sonori che gli artisti devono rispettare per poter rimanere rilevanti nel sistema. Allontanandosi dalle priorità del profitto che nella platform music hanno agganciato la produzione culturale agli stream, Bandcamp mantiene aperto uno spazio nel quale l’arte e le comunità musicali sono trattate in modo equo, in una visione centrata sulla cura della creatività seppur all’interno del mercato e dell’industria della musica. Come la storia delle esperienze di indipendenza dal music business racconta, anche nel caso di Bandcamp arrivano le criticità che ne minacciano il futuro, come i recenti cambiamenti di proprietà.

LICENZIAMENTI
Da marzo 2022 Epic Games ha comprato Bandcamp, innescando una parabola arrivata al suo culmine il 16 ottobre 2023, quando Epic Games ha rivenduto la piattaforma a Songtradr. Dopo la vendita il 50% del personale di Bandcamp è stato licenziato. Al licenziamento è seguita la nascita di Bandcamp United, sindacato dei lavoratori della società, ma il futuro rimane incerto. Bandcamp e prima Myspace e ancora prima le etichette discografiche, i negozi di dischi, le radio, i club e le fanzine rappresentano la possibilità di espressione dei musicisti. Sono esistiti nel music business stressandone e seguendone le leggi, ma modificandone l’etica spesso con una capacità di risposta alle istanze contemporanee, più rapida del mercato stesso.

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