Europa

La dottrina sociale oltre la Chiesa

La dottrina sociale oltre la ChiesaL'incontro fra il papa e Evo Morales, presidente della Bolivia, lo scorso aprile – Foto La Presse

Bergoglio In continuità con il messaggio ai movimenti popolari in Bolivia (citato due volte)

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 7 maggio 2016

Il discorso che papa Francesco ha pronunciato ieri di fronte alle principali autorità europee non necessita di esegeti. Un discorso alto, chiaro e fortemente politico, niente a che spartire con la retorica cerimoniale. Parole che provengono da un’autorità religiosa, ma si rivolgono alle istituzioni e alle società nel loro complesso. Sembrano davvero lontani gli anni della campagna identitaria di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI perché nel progetto di costituzione europea (abbandonato dopo i referendum del 2005) entrasse il riferimento alle radici cristiane del continente. A cambiare (in peggio) non sono state solo le condizioni dell’Unione, ma anche la stessa Chiesa cattolica, travolta da una crisi profonda da cui Bergoglio sta cercando di farla uscire. Il discorso per il conferimento del premio Carlo Magno si inserisce quindi in una storia recente che ha visto salire al soglio pontificio un papa che parla una lingua completamente diversa da quella del cattolicesimo mainstream di inizio millennio.

La campagna per la valorizzazione del cristianesimo come elemento «pesante» nel patrimonio culturale europeo non è scomparsa dalla dialettica pontificia, come dimostra il discorso al Parlamento di Strasburgo del dicembre 2014. Tuttavia l’ordine delle priorità sembra essersi sensibilmente modificato al punto da derubricare il contributo della Chiesa (di testimonianze e non confessionale o di opposizione al relativismo secolarizzante) a poche di righe di preambolo al «sogno» di un nuovo «umanesimo europeo». Al tempo della guerra mondiale non dichiarata, papa Francesco sceglie il registro della denuncia rimettendo al centro la dottrina sociale per dare una scossa a un’Europa «invecchiata» e ripiegata su sé stessa. In continuità con il discorso ai movimenti popolari in Bolivia (citato per ben due volte), tornano gli appelli alla giustizia, alla pace e alla difesa del lavoro, la cui assenza viene identificata come una delle cause principali dell’antieuropeismo dilagante. Come già avvenuto in altre occasioni, non si tratta di un appello generico alla solidarietà, ma di una denuncia precisa delle politiche tecnocratiche sul lavoro di un’Unione che ha perduto completamente la rotta indicata dai padri costituenti.

Dopo la visita di Lesbo e nel pieno della svolta austriaca anti-migranti, il punto di rottura è indicato però nella chiusura delle frontiere e qui la riflessione sull’identità riemerge nella sua rilevanza e discontinuità rispetto al passato. Il papa fa riferimento al pantheon democratico-cristiano europeista (De Gasperi, Schuman, Adenauer), ma l’obiettivo è mobilitare una memoria condivisa, quella della Shoah e dell’Europa descritta da Erich Przywara come crocevia di culture diverse. «Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa – afferma Bergoglio – si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove culture senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale. L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile». In altre parole, le scelte politiche di Bruxelles e delle principali cancellerie vengono lette dal papa come la cartina di tornasole per verificare l’esistenza e le possibilità di sopravvivenza di un’Unione che, come aveva detto a Strasburgo, sappia andare oltre gli interessi dei singoli Stati e di un «potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti».
Il discorso sulle radici si risolve in una riflessione sul multiculturalismo, la solidarietà e l’edificazione di una comunità di persone. E i diritti umani, che la Chiesa ha faticato a lungo a riconoscere come tali.

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