La doppia lingua dell’oggetto artistico
Saggi Il libro di Raffaele Gavarro «L’arte senza l’arte», pubblicato da Maretti Editore. Una riflessione sul rapporto dei gesti creativi con la realtà materiale e quella digitale
Saggi Il libro di Raffaele Gavarro «L’arte senza l’arte», pubblicato da Maretti Editore. Una riflessione sul rapporto dei gesti creativi con la realtà materiale e quella digitale
Il libro di Raffaele Gavarro L’arte senza l’arte (Maretti Editore, pp. 128, euro 18) pone questioni che per la loro rilevanza nel sistema dell’arte circolano da tempo. Hanno anche un bagaglio di riflessioni e scritti piuttosto cospicuo che l’autore puntualmente ricorda e cita nello scorrere delle pagine.
TUTTAVIA, IN TEMPI più recenti, tali questioni hanno provocato più quella corrente d’aria smossa da un fantasma che aperto un serio dibattito su ciò che ormai costituisce l’inaggirabile nucleo centrale non solo della critica d’arte, ma anche dello stesso fare arte.
Il libro è stato pensato subito prima dell’attuale situazione storica di estremo disagio relazionale e che ha visto tutta la cultura e anche l’arte tentare l’impossibile trasferimento nel digitale, pure secondo bizzarre indicazioni istituzionali. Ma il problema è rovente da tempo, riguarda lo statuto dell’arte contemporanea e forse dell’arte tutta se si storicizza dentro la coppia polare reale/virtuale. Ora va a costituirsi e a specificarsi ulteriormente nella costanza del rapporto tra mondo digitale e produzione artistica. Un rapporto che, secondo l’autore, deve continuare a mantenere un doppio binario linguistico e comunicativo che nel libro viene definito analogicodigitale.
QUAL È IL RAPPORTO dell’arte con la realtà? E cos’è quella realtà digitale dentro cui oggi tutte e tutti ci muoviamo più o meno consapevolmente e con cui l’arte deve misurarsi? E soprattutto, può l’arte entrare in quella sorta di guardare impassibile che produce il mondo digitale, cedendo così definitivamente il suo essere arte? Moltissime domande si susseguono nel libro e spalancano un dibattito che Gavarro lascia con acribia aperto e con cui è difficile non dialogare.
CENTRALE È INTENDERE, non solo storicamente, cosa vuol dire quel «senza» del titolo. L’autore non lo intende mai come una perdita, per dirla economicamente una diminuzione di valore subita da un bene, perché, nonostante un’asciutta e puntuale critica verso il sistema dell’arte che coinvolge tutti i soggetti che ne fanno parte, quella preposizione invita semmai a un cambiamento radicale che ne riporti in luce la indispensabilità.
Gramscianamente, oggi l’arte deve di nuovo intervenire, non imitando la modalità meme che affolla e, in parte, diviene statuto della rete e ben sapendo che anche l’antico ut pictura poiesis era cosciente artificio della mimesi, ma mettendosi nella condizione di creare in dialettica con il digitale senso comune consapevole e alternativo a quello «folcloristico» e «declamatorio» che la rete permea e rende anestetica. Nessuna rigidità e rifiuto aprioristico consente consapevolezza, ma ciò che può servire è la capacità di farsi replicatore critico e non imitatore senza lo scarto dell’artificio.
L’OGGETTO ARTISTICO, se riesce a mantenere quel grado caldo di adorniana inconciliatività, di antagonismo, rimane sempre dentro un ambito di rapporto sensibile, di materialità, cioè di «coesistenza senziente invece che separazione anestetica» per citare un altro studioso, Salvatore Iaconesi.
È recentissima la notizia della rottura dell’equilibrio tra biomassa e oggetti prodotti. Esistono molti più oggetti prodotti, in gran parte spazzatura, che oggetti naturali.
PERCHÉ SCRIVERE una cosa del genere in questa recensione? Per provare a creare una sorta di analogia tra la biomassa e il pensiero artistico, una immaterialità che non può non essere anche oggetto che si pone al centro di un rapporto.
Questa biomassa culturale, fondamentale e politica deve farsi capace criticamente di mettersi davanti all’eccesso di oggetti prodotti per indicarne la inconsistenza, l’impossibilità di trarre senso da molta parte di quegli oggetti, che tali sono e subdolamente ingombranti anche nel web. La qualità spazio temporale della relazione, la sua profondità e quindi la sua complessità, quand’anche essa si sviluppi dentro la realtà digitale, può spettare all’arte e al suo sistema, che in quanto sistema è già relazione, ma tutto questo deve riconoscere in sé e ritrovare una forza che deriva dalla capacità di farsi movimento, non adattata contemplazione.
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