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La «divina» commedia del serial killer

La «divina» commedia del serial killer

Al cinema In sala il nuovo film di Lars von Trier, «La casa di Jack», protagonista Matt Dillon. Una rilettura alla prima persona della figura di Jack lo Squartatore

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 febbraio 2019

Si deve ripercorrere la «parabola» di Lars von Trier, dagli anni Novanta dei primi film, del manifesto Dogma, delle masturbatorie soddisfazioni nelle Onde del destino – ovvero il piacere di intrappolare spettatore e personaggio – per cogliere le fondamenta di questo La casa di Jack, presentato lo scorso anno (fuori concorso) a Cannes – dove il regista danese tornava dopo la scomunica seguita alle dichiarazioni simpatizzanti verso il nazismo, anche questo perfettamente sintonizzato col suo fare. Della sua smania di controllo (dalle narrazioni imputata all’educazione libertaria dei genitori) – sui personaggi, sullo spettatore, sul cinema stesso – questo è la celebrazione, e in questo senso anche il film più personale e scoperto, che mostra come quanto della sua macchina di seduzione – incantatoria per i cinefili impazziti davanti ai suoi film – sia rimasto poco. Forse appena un’incertezza non sintonizzata con le necessità poste dalle immagini oggi di fronte alla quale la risposta, come sempre, è quella di sottostare alle sue regole – gridando al capolavoro o all’indecenza.

The House that Jack Built rivisita il mito di Jack lo Squartatore, che qui diviene Mr.Sophisticated (Matt Dillon, bravissimo), intento a narrare le proprie imprese di assassino seriale con ambizioni d’artista a un enigmatico interlocutore, Verge Virgilio?), una sorta di coscienza che lo mette davanti ai suoi deliri (Bruno Ganz in quella che è divenuta la sua ultima interpretazione) e al tempo stesso lo lascia libero di agire.

INGEGNERE che vorrebbe essere architetto con maniacale ossessione per la pulizia, Jack vede nel gesto omicida l’ordine contro il caos, e per questo mette le sue vittime in posa fotografandole in sovraesposizione. Intanto fa e disfa la sua casa che non trova una forma, come la sua testa, e ha bisogno di materiale umano per essere finita.
Ogni ammazzamento offre il pretesto per una dissertazione sull’arte e sul suo potere trasgressivo a cui si contrappone l’immagine di Glenn Gould al pianoforte: variazioni possibili Blake, i totalitarismi, e i loro crimini, il processo di maturazione del vino.

IL PRIMO cranio spaccato (di Uma Thurman) donna insopportabile sfuma in un disegno cubista a cui seguono strangolamenti, tette tagliate, bambini impallinati: bellezza e mostruosità, la tigre e l’agnello, le vittime (gli spettatori?) che sono stupide, e questo è il loro problema. E il ruolo del regista, comporre, ricomporre, creare universi. Jack c’est moi, dunque? (inteso come von Trier)? Fin troppo evidente in questa «Divina commedia» che ripercorre l’esperienza artistica dell’autore, da Le onde del destino – di cui riprende l’oscillazione «dogmatica» della macchina da presa – a Nymphomaniac, ma in un grottesco meno efficace, lui, sempre lui, il regista con le sue «provocazioni» che vorrebbero smascherare il mondo del politicamente corretto, l’ipocrisia, l’indifferenza del contemporaneo esaltando la bellezza del male. Ma questo circuito impermeabile ormai neppure autoritario finisce non ha energia, se non di un narcisismo privo di guizzi.

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