Visioni

La diva seducente che incanta senza parole

La diva seducente che incanta senza paroleLyda Borelli e Manuel Bonnard in Ma l'amor mio non muore!

Cinema ritrovato Nel programma del festival bolognese riappare la pellicola del 1913 di Mario Cesarini Ma l'amor mio non muore! con una seducente Lyda Borelli

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 3 luglio 2013

Tanti anni di storia del cinema a ripeterci che il cinema muto italiano era decadente, affossato dai capricci delle dive e dalla magniloquenza dei colossal storici, ci portano automaticamente a rientrare in questo schema mentale, senza vedere davvero film che, ritrovamento dopo ritrovamento, stanno costruendo invece un’immagine diversa della nostra cultura cinematografica, mettendo nella giusta prospettiva questi testi, senza cercare per forza in essi i «primordi del neorealismo» – la gloria nazionale. Ma l’amor mio non muore! di Mario Cesarini, 1913 senza dubbio meritava l’attento restauro del Museo del cinema di Torino e dell’Immagine ritrovata, proprio per il suo ruolo nella rassegna dedicata ai Film di Cent’anni fa (ovvero del 1913, anno di nascita del lungometraggio) quando il cinema italiano e questo film spostano l’asse dall’intrattenimento per le masse popolari, di pochi minuti, da vedersi in sale scomode e rumorose, a piacere borghese da gustare in teatri acconci nel nuovo formato lungo, sintesi di ogni arte, dal teatro alla pittura, alla fotografia.

Esordio cinematografico della diva simbolista (piuttosto che decadente – un termine che ha sempre una connotazione negativa) per eccellenza, Lyda Borelli, è una sorta di incunabolo del diva-film, in cui si muove sinuosa l’attrice, che veniva da una carriera sfolgorante (e internazionale) in teatro, dove aveva appena interpretato una leggendaria Salomè di Oscar Wilde, le cui pose fotografiche, con i seducenti costumi decò, ne avrebbero fatto un’icona da replicare nel Liberty e nell’immaginario dei nostri nonni.
Il film è un misto di melodramma e film di spionaggio, improbabile se non si pensa all’autentica vicenda coeva di Mata Hari, gioco di specchi tra cinema e teatro, amore e morte nella versione più tragica e sentimentale. Messo in prospettiva però, il film rivela tutta la sua forza innovativa, con l’uso complesso dello spazio, in cui è sempre attiva anche la parte posteriore dello schermo, in cui si ambienta un’azione che interagisce con quella in primo piano, o l’uso degli esterni reali, o in interni che non sono mai di cartapesta o dipinti su tela, come nel cinema americano coevo, ma non solo autentici ma anche eleganti e sapientemente organizzati. Ma sicuramente la forza espressiva del testo è la Borelli, con le sue pose ieratiche o gli abbracci avviluppanti e famelici, e i suoi languori, o con le sue sintesi in pochi quadri dei ruoli a teatro, teatro nel teatro che il film gioca aggiungendo persino un gioco di specchi, in cui l’azione si vede solo nel suo riflesso lontano in una elegante specchiera, un fuori campo geniale, che ricorre più volte. Insomma se si mantiene una prospettiva storica non un capolavoro ma un film che mette in luce con forza i livelli non provinciali e innovativi che aveva raggiunto il cinema italiano alle soglie di una guerra che lo avrebbe travolto e cambiato per sempre.

, a dimostrazione che il casting delle attrici teneva conto dei loro potenziali e non per forza faceva di tutte delle dive appese alle tende (anche se non si sfugge anche qui alla bella tra i fiori o alle pose con i mazzi appena raccolti accanto al volto, tanto per sottolineare la componente «floreale» di questa iconografia. Al film mancano ancora i rulli finali, che incoraggiati dalla visione di questo del restauro del museo del cinema di Amsterdam, forse qualcuno ora cercherà di ritrovare.[do action=”citazione”]Il restauro di Tragico convegno (1915) di Ivo Illuminati ci fa scoprire invece un buon melodramma con la fresca Maria Jacobini, nel ruolo della ragazzina americana che viene a farsi un’educazione aristocratica in Italia e si innamora del suo tutore, distraendolo dalla sua tresca con una donna sposata[/do]
A lungo anche questo film era stato dato per perso, ma per fortuna nostra invece The Pleasure Garden (1926) è stato ritrovato e restaurato (dal British Film Institute) dandoci la possibilità di vedere un Hitchcock muto, al suo esordio registico, che racconta una parte di storia inglese, quella coloniale, vista insolitamente nella sua quotidianità, e non in racconti epici e mistificatori. Due ballerine di fila del Pleasure Garden vengono corteggiate da due giovanotti in partenza per l’Oriente, allo scopo di mettere da parte abbastanza denaro da sistemarsi. Ma il destino mette in coppia la scalatrice sociale Jill, finta ingenua che viene dalla campagna e dice le preghiere prima di dormire, con il bravo ragazzo, mentre il suo amico bugiardo (che ha già una moglie indigena e che come in un film di Griffith rivela la sua cattiveria scatenando il ringhio furioso del cagnetto di casa) corteggia e sposa Patsy, interpretata da Virginia Valli, e la porta in viaggio di nozze sul lago di Como, in un’ambientazione romantica e reale in quelle contrade, che Hitchcock aveva voluto, anche per trascorrerci la sua luna di miele con Alma, già sceneggiatrice di questo suo primo film.
L’epilogo nelle colonie mostra la misera capanna in cui l’uomo si abbruttisce nell’alcool e nel sesso con la giovane donna di colore, che uccide per rinnegare razzisticamente la sua attrazione. Da un lato il palcoscenico con le sue ballerine seducenti in lamè e dall’altro il mondo poco glamorous delle pensioncine e delle faticose vite coloniali – un’Inghilterra che Hitchcock tratteggia con il suo sguardo impietoso e ironico, e con quegli intrecci di sensi di colpa e inganni tra finzione e realtà, che diventeranno un suo tema ricorrente.

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