La distanza in quel «Bistrò delle delizie»
NARRATIVA A proposito del secondo romanzo di Tugba Dogan, scrittrice turca tradotta da Carbonio editore
NARRATIVA A proposito del secondo romanzo di Tugba Dogan, scrittrice turca tradotta da Carbonio editore
Prendere la distanza da qualcosa o misurare se stessi e i propri desideri sulla base di una distanza imposta e subita è uno dei modi possibili di vivere un luogo che non si percepisce più come proprio, o che mai come proprio è stato avvertito. O può essere modalità ultima di auto-convinzione: lasciare che quella distanza da ipotetica, platonica, si tramuti in chilometri reali, centinaia di migliaia di chilometri da utilizzare come muro invalicabile a un potenziale ritorno.
È la strategia che adotta Salih, il protagonista narratore e narrato del secondo romanzo della scrittrice turca Tugba Dogan, Il bistrò delle delizie (Carbonio editore, pp. 168, euro 15, traduzione di Nicola Verderame). Narrato e narratore perché il romanzo sceglie voci diverse e differenti punti di vista per raccontare la scelta di Salih: il flusso di coscienza in prima persona, le parole terze dell’onniscente autrice e infine le lettere dell’amata Nihan.
SALIH vive nella distanza: dalla vera vita dei genitori scoperta solo dopo la loro morte ravvicinata e rilevatrice; dal suo paese – la Turchia – che sceglie di abbandonare per il Brasile in qualità di esponente di quella «nazione virtuale, senza terra né inno né bandiera, di coloro che volevano partire», «persone che provenivano da strade differenti, ma erano unite dall’idea di andar via», condizione che nella Turchia attuale è ridata indietro da sondaggi tranchant e dal loro 70% di giovani certi di aver perso anche la speranza del sogno. Vive nella distanza dal suo lavoro, il giornalismo, o meglio da quello immaginato all’università, e nella distanza da lutti che non comprende per colpa di un’atavica ritrosia a esplorare le persone a lui vicine, un disagio che sfiora l’egotismo.
Solo a un luogo pare avvicinarsi, il Bistrò delle delizie della cuoca Afitap Hanim, donna generosa che intuisce con sapienza il bisogno di Salih di individuare il suo posto nella realtà. Fino all’ennesima distanza, quella più cocente perché subita: la distanza dalla donna amata, l’attrice Nihan, viaggiatrice per lavoro e aspirazione e apparizione fugace tra un’attesa e l’altra.
Salih la ama, eppure in fondo non ne è incuriosito. Pensa di esserlo nei fine settimana trascorsi con lei in ogni angolo del mondo, nei pedinamenti a cittadini del luogo di cui imitare la vita (e, di nuovo, attraverso cui coprire la distanza con la città sconosciuta), si illude di esserlo nell’esaltazione epica della sua persona e nelle conversazioni immaginarie che intrattiene con lei quando non c’è.
MA QUANDO la distanza fisica da Nihan si fa insormontabile, emerge l’incapacità di Salih di andare oltre l’io. E anche Nihan, la donna che ha reso inutile il destino e indispensabile la volontà, che ha dato potere di cambiamento alla coincidenza e al caso, rimane un’essenza ignota. E resta sconosciuto il domani potenziale. Nella quotidianità del dolore rimane solo «il flagello più estremo: provare nostalgia di esperienze che non si conosceranno mai, nostalgia non del passato ma del futuro».
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