Alla sua 48sima edizione, il Rossini Opera Festival di Pesaro ha ormai trovato la sua formula aurea. Muovendosi dentro un repertorio non infinito, sebbene non piccolissimo (Rossini conta 39 opere), il sovraintendente Ernesto Palacio e il direttore artistico Juan Diego Florez hanno escogitato una terna di titoli equilibrata: l’«opera» comica composta verso fine carriera a Parigi, Le Comte Ory (alla Vitrifrigo Arena); il «dramma per musica», in verità una farsa, La gazzetta (al Teatro Rossini), e il «dramma tragico», Otello ossia Il moro di Venezia (alla Vitrifrigo Arena), queste ultime della stagione napoletana della carriera del compositore. Leggendo il cartellone secondo la cronologia: dalla comicità stereotipa «all’italiana» basata sugli equivoci (La gazzetta) si passa al tragico basato sulla lettura preromantica di Shakespeare (Otello), per finire con la comicità inclassificabile che dissolve il buffo italiano in un genere che non esiste ancora, il petit opéra (Le Comte Ory, che sta a Rossini come Falstaff sta a Verdi).

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«LE COMTE ORY» conta sulla direzione di Diego Matheuz, poco incline a seguire corrivamente il carattere indiavolato di certi pezzi rossiniani e perciò capace di non cadere nelle trappole della tradizione, ma soprattutto conta sulla messa in scena di Hugo De Ana, che cura regia, scene e costumi. Lo spettatore si trova difronte a una fantasia villereccia anni ‘50, con costumi in technicolor come nei musical e nei melo hollywoodiani, ma anche con riferimenti al proto-fantasy del Mago di Oz, su fondali e tra sculture che evocano il Trittico del giardino delle delizie di Bosch. Tutto all’insegna di una dissacrazione (Ory entra in scena travestito da Mosè, più tardi i suoi cavalieri scimmiottano le pose dell’Ultima cena di Leonardo) che permettono al sacro di mescolarsi al profano come la presunta castità delle donne della Comtesse cela un desiderio di piacere irresistibile al pari di quello degli uomini del Comte. Fino all’apice travolgente del terzetto del II atto che si trasforma in ménage à trois in cui il tenore/Comte travestito da donna vorrebbe fare sesso col soprano/Comtesse, ma si trova tra le braccia il mezzosoprano en travesti/Isolier travestito da donna. Eccellente il cast: su tutti il veterano Florez, strepitoso Don Giovanni in sedicesimo, e le spericolate Julie Fuchs (Comtesse) e Maria Kataeva (Isolier), senza dimenticare l’ottimo Nahuel Di Pierro (Gouverneur).

LA PROGRAMMAZIONE prosegue con il kitsch ironico de La gazzetta, per la regia di Marco Carniti. Il buffo sgangherato e colmo di equivoci e zeppe drammatiche della trama viene tradotto in uno spazio astratto dove la chiave è quella del gioco: un gioco che riesce al regista, capace di costruire con gli attori coreografie continue, sia agìte che danzate, sempre pertinenti all’azione, un po’ meno alla scenografa Manuela Gasperoni, che inventa arredi la cui leggerezza rischia di sfociare in inconsistenza e riempie il palco di fastidiose scritte luminose o stampate su pannelli che scendono e salgono senza sosta. Carlo Rizzi dirige con verve e precisione. Irresistibile senza gigionismi il Don Pomponio del mattatore Carlo Lepore; Maria Grazia Schiavo (Lisetta) all’inizio è un po’ metallica e sforzata, ma poi si scalda e fraseggia comme il faut; convincente l’Anselmo di Alejandro Baliñas, una menzione speciale per Giorgio Caoduro (Filippo), vero signore della scena. Otello conta invece sulla lettura scenica di Rosetta Chucchi. Qualcuno penserà che fare di Desdemona l’emblema di tutte le donne uccise da compagni mai cresciuti fino a elaborare ciò che non conferma il loro io o i loro desideri sia un’idea goffamente figlia del #MeToo. Eppure intorno al femminicidio di Desdemona prende forma una cornice drammaturgica implacabile: lasciano il segno l’inizio, con la visita guidata alla casa museo del fattaccio di cronaca, la fine del II atto con i fantasmi delle donne uccise che dialogano con Desdemona prossima a raggiungerle, e la canzone del salice con la danza straziante della schiava Isaura. La lettura funziona anche grazie all’interpretazione superba di Eleonora Buratto, allo stesso tempo assertiva, dolcissima e tragicamente vittima. Eccellenti anche le interpretazioni di Enea Scala, che risolve gli impervi passaggi di registro di Otello, e Dmitry Korchak, la cui voce ha come sempre uno smalto purissimo. Intensa la direzione di Ives Abel, incline a sottolineare il tragico della vicenda.