Nel dibattito culturale odierno si fa prevalentemente riferimento alla materia come a qualcosa di neutrale, disponibile e tecnologicamente soggiogabile e trasformabile in tutte le forme che decidiamo. Questo modo di vedere contrasta però con una problematica caratteristica che tradizionalmente la filosofia ha attribuito alla materia e cioè il suo essere passiva. Passività vuol dire, fra le altre cose, che la materia, prima dell’intervento naturale o umano, è già affetta dalla trasformazione, già incisa da differenze, già addirittura minacciata di essere risucchiata nel suo opposto dell’antimateria.

La passività rende la conoscenza della materia inseparabile dalle sue metamorfosi, dai suoi processi di oggettivazione e soggettivazione. Ciò comporta che non si dovrebbe prescindere, come fa una larga parte del dibattito filosofico odierno sulla materia, da posizioni che implicano nel loro materialismo anche i processi di oggettivazione e soggettivazione, come ha sempre fatto, per esempio, il marxismo. A tal proposito, recentissima è una nuova edizione italiana curata da Luciano Canfora della tesi universitaria di Marx sulle differenze tra il materialismo di Democrito e di Epicuro – tesi nella quale il giovane Marx rivalutava non a caso il materialismo epicureo, cioè il materialismo inscindibile dai processi di soggettivazione.
COME SOTTOLINEA Anna Montebugnoli, nell’importante raccolta di saggi da lei curata, Sulla soglia delle forme. Genealogia, estetica e politica della materia (Meltemi, pp. 211, euro 20), non appena osserviamo la passività della materia, per ciò stesso ci ritroviamo già proiettati a osservare anche i suoi eccessi, ciò che nella materia è già sconfinato nelle forme, nelle soggettivazioni e oggettivazioni disciplinari. La passività della materia ci pone di fronte all’inseparabilità sconfinante dell’epistemologia nel contenuto del sapere, della metodologia nelle materie disciplinari, del linguaggio nell’ontologia.

Ci pone in un discontinuo scivolamento fra le suddette polarità. Mentre l’una polarità continua a fungere da passività è già diventata eccesso dell’altra polarità. Tutto ciò comporta l’impossibilità di una posizione neutrale o simmetrica di chi conosce soltanto «come si conosce», l’impossibilità di una posizione dell’esperto della materia disciplinare senza contatto con le altre materie disciplinari e metodologie. È altresì rilevante ricavare da questo volume che questa posizione neutrale non si dà neanche nel sapere filosofico. Non c’è filosofia che non sia sempre anche archeologia e ricostruzione genealogica di una già formata esperienza materiale di sapere aperta a altre esperienze, aperta al divenire.

IL DIVENIRE, che Montebugnoli illustra come già interno alla materia, non è altro che le stesso gioco fra passività e eccesso di essa. Un divenire però, non visto come continuità assoluta senza increspature, ma come serie spezzata di continuità o durate all’interno di una più generale discontinuità. Al pari di altre continuità, anche quella algoritmica sta dentro la discontinuità, dentro le alternanze di passività e eccesso della materia. D’altro canto, far dipendere le durate, le continuità esclusivamente dalle decisioni dei processi di soggettivazione e oggettivazione significa neutralizzare lo snodo dinamico di passività e eccesso della materia, significa dimenticarsi che le stesse durate e continuità sono a-ritmate in un macro-processo discontinuo. Come indica Montebugnoli, significa considerare la materia come disponibile a essere gerarchicamente dominata da idee iperuraniche separate nella loro stessa pretesa perfezione. Proprio questa pretesa separazione, tipica di tanto epistemologismo scientista odierno, è ciò che forza la forma a diventare identità, cioè che forza il reale a farsi realtà.
Questo libro ha il merito, fra gli altri, di evidenziare come la dimenticanza del gioco tra passività e eccesso della materia contribuisca a produrre un sapere pericolosamente affetto da un essenzialismo la cui ingenuità euristica è pari soltanto alla violenza delle sue applicazioni politiche.