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La diplomazia deve prendere il posto delle paure

La diplomazia deve prendere il posto delle paureZarif e l'ex Lady Pesc dell'Ue Ashton a Vienna nel 2014

Iran/Israele Se gli iraniani temono un attacco, non è solo per le invettive di Netanyahu e di Trump, ma anche perché il loro paese è stato attaccato più volte, anche durante la Seconda guerra mondiale quando era neutrale: le truppe britanniche avevano invaso l’Iran da sud e i soldati sovietici da nord, la popolazione subì l’occupazione straniera che Simin Daneshvar, la decana della letteratura persiana al femminile, aveva ben raccontato nel suo capolavoro Suvashun

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 maggio 2018

Il premier israeliano Netanyahu sta facendo di tutto per diffondere la paura della bomba iraniana e sabotare la diplomazia. Pensa di mandare a monte l’accordo sul nucleare con l’Iran, ma finirà per darsi la zappa sui piedi perché solo il rispetto dell’accordo garantisce alla comunità internazionale (e allo Stato ebraico) che la politica di deterrenza di ayatollah e pasdaran dovrà fare a meno dell’atomica. Se l’accordo andrà a rotoli, gli iraniani riprenderanno il programma nucleare iniziato negli anni ’50 da Muhammad Reza Shah su iniziativa americana, aumenteranno il numero di centrifughe, e usciranno dal Trattato di Non Proliferazione siglato ai tempi della monarchia.

Certo, la dirigenza israeliana ha tanti buoni motivi per avere paura dell’Iran e i suoi alleati, in primis degli Hezbollah libanesi e un po’ meno del regime del presidente siriano Assad, le cui richieste di restituzione delle alture del Golan (occupate nel 1967) non hanno avuto alcun ascolto da parte della comunità internazionale nonostante le risoluzioni Onu. Questi buoni motivi non devono però degenerare in una guerra che avrebbe conseguenze devastanti anche per l’Europa, su cui si riverserebbero i rifugiati. Per questo, è urgente che sia proprio Bruxelles a disinnescare la miccia difendendo l’accordo firmato a Vienna il 14 luglio 2015 dopo lunghissime trattative diplomatiche.

Noto come Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo multilaterale con l’Iran era stato negoziato dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (Usa, Francia, Regno unito, Cina e Russia) e dalla Germania. Secondo quanto dichiarato ben undici volte dall’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), Teheran non sgarra. In un Medio Oriente in fiamme, il Jpcoa impedisce alla Repubblica islamica di dotarsi dell’atomica e la sottopone a ispezioni minuziose, pur non prevedendo limitazioni al programma missilistico iraniano, al sostegno agli Hezbollah libanesi e al regime siriano. Ora, mandare a monte il Jcpoa vuol dire mettere in difficoltà il presidente moderato Rohani e il suo ministro degli esteri Zarif rafforzando le posizioni dei falchi di Teheran, ma significa anche deludere i tanti iraniani che hanno creduto nella diplomazia e nella capacità di mediazione dell’Ue. E renderebbe assai probabile un nuovo fronte di guerra.

Per il leader iraniano Ali Khamenei, firmare il Jcpoa ha significato rinunciare alla sovranità nucleare per un periodo che va da 10 a 15 anni, dopodiché ci sarà la supervisione dell’Aiea a tempo indeterminato e l’impegno a non sviluppare né acquisire alcuna arma nucleare in nessuna circostanza. In cambio, la Repubblica islamica avrebbe dovuto essere sdoganata, e quindi l’embargo doveva finire. Ma così non è stato, perché gli Usa non hanno mantenuto la parola e non hanno rimosso le sanzioni finanziarie che hanno pesanti ripercussioni sul business anche con l’Europa, perché le banche del vecchio continente esitano a lavorare con Teheran temendo le bacchettate del Tesoro americano. Per questo, ora le autorità iraniane chiedono il rispetto dell’accordo (e quindi anche il rinnovo del waiver da parte di Trump entro il 12 maggio) e ribadiscono che i termini non sono negoziabili: se Emmanuel Macron e Angela Merkel dicono di volerlo modificare, perdono legittimità di fronte ai loro interlocutori iraniani.

Detto questo, se oggi Teheran è la capitale di una potenza regionale, è anche grazie agli Usa che hanno eliminato il regime di Saddam in Iraq e quello dei Talebani in Afghanistan, nemici degli ayatollah. Se da un parte gli iraniani sono grati al Pentagono per queste operazioni, dall’altra temono di finire pure loro nel mirino degli americani e per questo stanno espandendo il programma missilistico. Ora, la diplomazia deve prendere il posto delle paure cercando di capirne le ragioni, anche attraverso la letteratura. Se gli iraniani temono un attacco, non è solo per le invettive di Netanyahu e di Trump, ma anche perché il loro paese è stato attaccato più volte, anche durante la Seconda guerra mondiale quando era neutrale: le truppe britanniche avevano invaso l’Iran da sud e i soldati sovietici da nord, la popolazione subì l’occupazione straniera che Simin Daneshvar, la decana della letteratura persiana al femminile, aveva ben raccontato nel suo capolavoro Suvashun, finalmente tradotto da Anna Vanzan che lo presenterà al Salone del Libro di Torino lunedì 14 maggio (Francesco Brioschi Editore 2018). E ancora, nel 1980, l’Iran era stato invaso dalle truppe irachene di Saddam e la guerra era durata fino al 1980, un conflitto narrato da Ahmad Dehgan nel romanzo Viaggio in direzione 270° di (Jouvence 2018, traduzione di Michele Marelli).

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