La digressione di Gadda, un metodo ermeneutico
Classici italiani Sulle tracce filologicamente ricostruite di un volume di saggi che l’autore del «Pasticciaccio» avrebbe voluto varare fin dal 1934, esce «Divagazioni e garbuglio», curato da Liliana Orlando per Adelphi
Classici italiani Sulle tracce filologicamente ricostruite di un volume di saggi che l’autore del «Pasticciaccio» avrebbe voluto varare fin dal 1934, esce «Divagazioni e garbuglio», curato da Liliana Orlando per Adelphi
«Michelangiolo Amerighi veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo»: per Carlo Emilio Gadda, nell’Apologia manzoniana del 1924, i ragazzacci dipinti da Caravaggio sono già dei bravi manzoniani, e la Vocazione di San Matteo, e più in generale tutta l’arte barocca, intridono nascostamente la tessitura dei Promessi Sposi. «Il barocco lombardo di quel tempo ha tenui tocchi e una grave tristezza», che durante stesura del suo capolavoro, il primo autentico romanzo della nostra letteratura, ispirano alle radici lo «scrittore degli scrittori». Secondo Gadda, dunque, i Promessi Sposi rappresentano la vicenda, narrata con verosimiglianza, di «genti meccaniche» del secolo XVII, ma costituiscono anche un grande affresco a pieno titolo barocco, acceso dalla tragedia e da «luci salubri» che «succedono finalmente ai lividori d’un mondo, il di cui pittore potrebbe essere lo Spagnoletto».
Barocco è il mondo
Con una delle sue più geniali divagazioni, di intensità tale da spalancare universi, già nel 1924 Carlo Emilio Gadda sintetizzava così una nuova visione del mondo. Mutavano in profondo, interferendo reciprocamente, l’interpretazione dei Promessi Sposi e la stessa categoria di barocco, percepita da Gadda in una chiave etica prima che estetica. Ma, in realtà, fin da allora era la stessa natura «barocca» della scrittura gaddiana che si collocava, appena nascente, sotto quell’emblema. E difatti lui stesso quarant’anni dopo, nel 1963, in appendice alla Cognizione del dolore, scandirà la più celebre delle sue formule euristico-poetiche: «Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
Per il «barocco» Gadda (come comprese lucidamente Gian Carlo Roscioni) «il pasticcio, il disordine è insomma o mimesi della deformazione reale, o deliberata trasgressione di un ordine apparente, propedeutica alla creazione di una nuova realtà». E dunque parlare di un Manzoni «esegeta» e «analista», che «con un disegno segreto e non appariscente disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome», significava parlare di sé stesso, del proprio progetto di romanzo, avviato con il Racconto italiano e destinato a sfociare nella Cognizione.
L’Apologia manzoniana, incastonata nella ganga di «note preparatorie» che formano l’incompiuto Racconto italiano di ignoto del Novecento, edito solo nel 1983 da Dante Isella, sarebbe poi apparsa come saggio autonomo su «Solaria» nel 1927, e ancora sull’«Approdo letterario», accompagnato da una memorabile Premessa su Gadda manzonista di Gianfranco Contini. Già in quelle pagine del primo Gadda si avviò quella che Ezio Raimondi avrebbe definito la «gaddizzazione di Manzoni»: un punto di vista inedito da cui ripensare I Promessi Sposi come modernissimo dispositivo multimediale imperniato sull’immagine e «forza visiva della parola».
Proprio l’Apologia manzoniana apre ora, opportunamente, il bel volume curato da Liliana Orlando: Divagazioni e garbuglio Saggi dispersi (Adelphi, pp. 553, € 26,00), dove lo scritto eponimo, pubblicato nel 1968 su «Paragone Letteratura», chiude la raccolta e al tempo stesso ne illustra il carattere: «Questo lavoro mi è imposto, come sono stati la maggior parte de’ miei scritti, con suggerimento o preghiera o ingiunzione obbligante». Ma anche Divagazioni e garbuglio è un saggio manzoniano, concluso da un ghirigoro irriverente sugli endecasillabi in morte di Carlo Imbonati che «scottavano sotto il sedere a Don Alessandro a Brusuglio».
Gnommeri di vita e di stile
A metà del volume è collocato il famoso Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, uscito sul «Giorno» nel 1960: una risentita, a tratti feroce «correzione di tiro» rispetto alle critiche con cui Moravia «si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella “corruzione” borghese della società italiana e cattolica». Ed è sintomatico che nella difesa d’ufficio Gadda riprenda con alto vigore morale le idee e perfino il lessico dell’Apologia manzoniana, luogo genetico di tutto il suo pensiero poetante.
Fin dal 1934, spiega nella nota al testo Liliana Orlando, Gadda avrebbe voluto varare, intitolandolo con incredibile semplicità Saggi letterari, «un libro specificamente saggistico», sulle cui tracce ricostruibili nei documenti il volume adelphiano viene oggi montato: «non sorprende che a quest’altezza cronologica Gadda si riveli già pienamente consapevole dell’importanza del versante saggistico del suo lavoro di scrittore». Il libro vagheggiato da Gadda, «”pittorescamente eteroclito”», trova una buona realizzazione nella forma scelta dalla Orlando, sulla base di un progetto incompiuto filologicamente accertato. Sessanta saggi di disparata natura, omologati dall’inconfondibile stigma dello stile gaddiano, sono recuperati e riordinati dalla curatrice: fra tanti capolavori di divagazione come metodo ermeneutico è di grande bellezza Il dolce riaversi della luce (Il tempo e le opere), una minima cosmogonia portatile in chiave etica, dove l’ethos del lavoro, del fare che le «operose genti» praticano nel millenario corso degli evi per edificare una realtà sempre nuova, genera la clausola fiduciosa, davvero umanistica: «dureranno l’opere» lungo lo «smorire e ’l riaversi della luce» che è la vicenda della natura, estranea a quella della coscienza e del desiderio.
Guardando alle radici ci si accorge che la divagazione e il garbuglio sono due categorie manzoniane, che Gadda fa proprie ed elegge a modello di scrittura e di visione della realtà. Il garbuglio, introdotto nei Promessi Sposi come minaccia pericolosa per il tappeto del reale e per il «filo della storia» che intende ritesserlo in narrazione, è già ironicamente esibito nell’Azzecca-garbugli, il quale sembra incarnare il Don Bartolo delle mozartiane Nozze di Figaro («Con un equivoco, / con un sinonimo, / qualche garbuglio / si troverà»). Ma per Gadda il «garbuglio» della vita non si dipana facilmente: la realtà, dice nel Pasticciaccio, è «un groviglio di concause», e occorre descriverlo con una scrittura altrettanto ingarbugliata, fatta di grovigli, di gliommeri.
E poi, la divagazione: che è, a pensarci bene, la digressione manzoniana, eletta nel Fermo e Lucia a disegno costruttivo secondo il modello di Sterne, e rifiutata con orrore nei Promessi Sposi. In Gadda a riemergere è proprio la scrittura divagante, digressiva, sulla linea del Tristram Shandy: «Le digressioni sono indubbiamente il raggio di sole, la vita, l’anima della lettura». Performative, queste pagine leggere e vaganti divagano e ingarbugliano temi e miti personali: e sempre il guizzo della scrittura creativa sommuove la superficie stilistica dello scritto occasionale, riappropriandosi, al di là del motivo che ha generato il saggio, della tensione etica e conoscitiva che qualsiasi “occasione” offre a un moralista classico autentico, facendo coincidere sempre la gnoseologia e lo «stile necessario».
La vendetta su Croce
Leggere e vaganti, sì, ma solidamente ancorate a quel «concetto morale» che Manzoni aveva riconosciuto fondativo di una robusta visione della realtà, e che il romanzo «psicopatico e caravaggesco» progettato da Gadda si sforza di adattare alla rappresentazione della «baroccaggine del mondo». Aveva ragione, senza capirlo fino in fondo, Benedetto Croce: Gadda è «pesante», «pesa». E Gadda, parodizzando, trasforma il maestro della filosofia italiana, che non poteva amare un’opera così profondamente estranea alla sua estetica, in un personaggio gaddiano, un risibile Ciccio Ingravallo filosofico dalla cadenza dialettale, che sentenzia: «Gadda ha la mano pesande, la mano pesande».
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