Parlare di sé, parlare della propria malattia, anzi scriverne, è diventato un genere letterario, inserito nella categoria memoir, sottocategoria: «Narrativa del dolore», o «Medicina narrativa». Se raramente queste opere hanno uno spessore letterario, quasi sempre hanno il pregio di rendere visibile la malattia, facendo uscire chi ne soffre dal tabù del non detto. Fino a non molto tempo fa, dire che si era ammalati rischiava di emarginare, di dare di noi un’immagine da perdenti, sfortunati. La narrativa del dolore ha contribuito a sdoganare la malattia, a dire che si può vivere, lottare, magari anche incazzarsi, e pretendere dignità, anche se si deve combattere il cancro, la Sla, la sclerosi multipla, la depressione, la schizofrenia, l’autismo, l’anoressia, la leucemia, l’epilessia. È come gridare al mondo Io posso, Io lotto, Io esisto.
Alessandro Baricco, pochi giorni fa, ha annunciato via social di soffrire da alcuni mesi di leucemia mielomonocitica cronica, di essere in attesa di trapianto di cellule staminali del sangue dalla sorella Enrica, di non contare su di lui per un po’ di tempo, e che i medici si sono ficcati in testa di guarirlo, quindi di vederla bene. Gli facciamo tutti gli auguri possibili.

SE UNO SCRITTORE noto sente il bisogno di annunciare pubblicamente, e nei dettagli, che cosa sta capitando alla sua salute, è forse anche per evitare che altri mettano in giro voci sbagliate, chiacchiere, pettegolezzi. È come dire State calmi, della mia salute parlo solo io, precauzione più che condivisibile di questi tempi. Un annuncio simile lo diede anche Jovanotti, quando parlò, lo scorso anno, ma a malattia sconfitta, del linfoma di Hodgkin che aveva colpito la figlia Teresa. Non entro nel modo in cui ognuno di noi reagisce di fronte a un evento così drammatico, perché quando si tratta della salute, soprattutto quella altrui, la cosa migliore da fare è solidarizzare, e poi tacere. Resta tuttavia il fenomeno, quella pulsione sempre più diffusa a trasformare la malattia in narrazione e qui il confine diventa sottile. Narrazione di sé o del proprio male? E quando il bisogno, umano, di condividere un fatto, un’emozione, un’esperienza, sconfina nel narcisismo? Fino a che punto ciò che ci riguarda nell’intimo, nel profondo, nella carne e nel sangue, letteralmente, verrebbe da dire in questo caso, assume un valore universale?
Se penso a come ho visto reagire le persone alle malattie, mi vengono in mente due categorie. C’è chi ha bisogno di raccontare a tutti, nei più minimi dettagli, ciò di cui soffre, le cure, le complicazioni, le visite, i pareri dei medici, trasformando la conversazione in una sconfinata cartella clinica.

E POI c’è chi dice il meno possibile, persino agli amici, per scelta, per non far diventare lo stato del proprio corpo un dogma, per sobrietà, per non sentirsi, agli occhi del mondo, una collezione di acciacchi. È solo in quella seconda condizione di che lo svelamento del proprio male può diventare fecondo, ovvero utile agli altri. È lì, nel distacco da sé, che si può guardare davvero dentro se stessi. È solo lì che la narrazione del male può diventare bio-grafia, ovvero storia del sé, e non di sé. È soltanto prendendo la giusta distanza che il racconto dei fatti propri esce dalla banalità dei fatti propri e può diventare storia universale, nella quale tutti, o molti, si possono riconoscere.
Su quel sottile confine sta la differenza fra il piatto memoir e la letteratura, fra egotismo e visione, fra narcisismo e dono. In sostanza, è fra bio-grafia e biografico la differenza fra pathos e patetico.

mariangela.mianiti@gmail.com