La diciottesima vittima di piazza Fontana
Habemus Corpus n dicembre a Milano ci sono due date che segnano due opposti: da una parte la festa del 7 dicembre, dall’altra il ricordo della bomba che il 12 scoppiò nella Banca dell’Agricoltura
Habemus Corpus n dicembre a Milano ci sono due date che segnano due opposti: da una parte la festa del 7 dicembre, dall’altra il ricordo della bomba che il 12 scoppiò nella Banca dell’Agricoltura
In dicembre a Milano ci sono due date, anzi tre, che segnano due opposti: da una parte la festa del 7 dicembre (quest’anno celebratissima con Tosca di Puccini alla Scala), dall’altra il ricordo della bomba che il 12 scoppiò nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana e il defenestramento di Giuseppe Pinelli avvenuto in questura durante un interrogatorio nella notte fra il 15 e il 16. In mezzo c’è la frenesia degli acquisti prenatalizi. Quest’anno la tricotomia tra festa, consumi e memoria è resa più stridente dall’anniversario della strage avvenuta cinquant’anni fa. Il 6 dicembre una parte della città era presa dai preparativi per sant’Ambrogio, un’altra si è recata alla Casa della Memoria dove fino al 20 è in corso la mostra «17 graffi», esposizione fotografica con contributo poetico a cura di Stefano Porfirio e promossa dall’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969.
I 17 graffi corrispondono alle 17 vittime dell’attentato, 17 uomini che lavoravano la terra o facevano mestieri attinenti l’agricoltura e per questo si trovavano, alle 16.37 di quel venerdì, in quella banca. Ognuno di loro è ricordato con l’immagine di un fotografo corredata dallo scritto di un poeta/scrittore.
NON E’ UN CASO se molte foto rimandano ai campi. Adolfo Violini evoca Gerolamo Papetti con una stretta di mano sullo sfondo di due motoseghe, Paola Rizzi ritrae il trattore che Vittorio Mocchi aveva acquistato il giorno prima dell’attentato, Silvio Canini ricorda Giulio China con l’immagine di una zolla di terra divelta, Massimo Lagorio parla di Angelo Scaglia attraverso un cappello su una sedia in mezzo a un campo. Ci sono ritratti, come quello di Marina Alessi al figlio e al nipote di Pietro Dendena, che testimoniano il dovere di ricordare, altri che sottolineano una passione collaterale come quella di Giovanni Arnoldi che, oltre a commerciare vitelli, gestiva il cinema del suo paese, Magherno. Gianni Berengo Gardin, fotografando la piastrella posata dove fu appoggiata la borsa esplosiva, concentra l’attenzione su un punto emblematico.
Chi colpì quella banca colpì gente che, sudando sopra e attorno alla terra, lavorava per nutrire altra gente. Queste foto ci dicono che quello di piazza Fontana è anche il gesto vile e odioso di chi trama la morte contro chi lavora per la vita. E poi c’è l’anarchico, partigiano e ferroviere Giuseppe Pinelli che in questa mostra non è contemplato perché tecnicamente non morì a causa della bomba, ma che andrebbe inserito come la diciottesima vittima.
PINELLI fu vittima di un fermo che andò oltre i limiti di legge, di una macchinazione di parti deviate dello Stato che mirava a far ricadere la colpa dell’attentato sugli anarchici, vittima delle sentenze sulla sua morte che venne archiviata prima come «suicidio» dall’allora questore di Milano Marcello Guida, uno che era stato direttore del confino fascista di Ventotene durante il Ventennio, poi come «malore» da una contestatissima sentenza del 1975 del giudice Gerardo D’Ambrosio. La ricostruzione dettagliata di quei fatti, e relativi misfatti, si trova nel recente Pinelli l’innocente che cadde giù di Paolo Brogi (Castelvecchi), mentre un ritratto del ferroviere lo traccia Paolo Pasi in Pinelli. Una storia (eléuthera). Oggi sappiamo che i responsabili di quella strage furono i neofascisti di Ordine Nuovo coperti e protetti dai funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli interni. Sappiamo anche che i colpevoli non sono mai stati condannati in via definitiva. Milano sa che, dopo i festeggiamenti di sant’Ambrogio, c’è il dovere della memoria.
mariangela.mianiti@gmail.com
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