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Della Porta: «La Diaz, una vendetta contro un nemico pubblico costruito ad arte»

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Genova G8 Intervista a Donatella Della Porta (Istituto Universitario Europeo): "Approvare il reato di tortura in Italia è difficile perché a sinistra si teme di passare per giustizialisti. Per la destra non è in discussione perché è radicata tra le forze dell'ordine". Il codice identificativo per gli agenti? "Sarebbe il momento giusto, ma non è una priorità per le forze politiche"

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 9 aprile 2015

Donatella Della Porta, docente all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, analizza da anni i movimenti sociali. Già dal 2004 si è interessata al rapporto tra movimento No global e forze dell’ordine durante le proteste del G8 a Genova. La raggiungiamo per un commento alla sentenza europea che ha condannato l’Italia per le torture alla scuola Diaz.

Quell’azione può essere considerata una vendetta contro i movimenti?
In queste situazioni c’è sempre una dinamica di escalation innestata dall’idea: «Abbiamo perso, ora peròci vendichiamo». Si tratta di una dinamica legata a situazioni specifiche e non c’è una spiegazione unica per gli eventi. Sin dall’inizio a Genova si era partiti con un ordine pubblico aggressivo. Poi c’è stata la costruzione pubblica del nemico. A questo servì ad esempio la diffusione di notizie false, come i sacchi di sangue infetto che i manifestanti avrebbero lanciato contro gli agenti. Già nella loro costruzione, queste «notizie» erano poco realistiche. La dinamica della vendetta è maturata sul terreno e ha riguardato le truppe della polizia e dei carabinieri. Normalmente le vendette delle truppe si tengono sotto controllo. Nel caso della Diaz e di Bolzaneto c’è stata invece un’organizzazione dell’intervento che ha facilitato l’escalation. Di solito sono dinamiche di corto respiro, ma in questi casi sono state azioni prolungate. Insomma non c’è solo un poliziotto che dà un calcio a un dimostrante a terra. La definizione di tortura è legata al fatto che non è stato un gesto istintivo da parte di forze di polizia sotto pressione.

Perché è così difficile arrivare a un reato di tortura in italia?
Fino ad oggi questo reato è stato fatto passare come nemico dei sindacati della polizia. A sinistra si teme di passare per giustizialisti. Per la destra non è in discussione perché è radicata tra queste forze. In realtà nessuna forza politica ha voluto toccare il tema di una riforma della polizia che garantisca una sua responsabilizzazione. Ci sono stati momenti in cui governi di centrosinistra avrebbero potuto farlo, introducendo ad esempio il tema della riconoscibilità dei poliziotti in ordine pubblico. Ma ognuno ha preferito il suo orticello coltivando i rapporti con i tanti sindacati esistenti.

Questa situazione rende difficile anche una legge sul codice identificavo per gli agenti?
Questo sarebbe anche il momento per farlo visto che l’opinione pubblica è sensibile, ma sicuramente non è una priorità per nessuna delle forze politiche. Dopo Genova c’è stata una finestra di opportunità per ripristinare il buon nome della polizia davanti ai cittadini. Dopo l’11 settembre, e ancor di più oggi, si è però innestato un circolo vizioso: da un lato, i cittadini non hanno fiducia nella classe politica; dall’altro lato il diritto di critica viene sempre meno tollerato. Questo circuito si alimenta e porta a interventi duri contro manifestazioni pacifiche. Se si arriva a caricare il gruppo dirigente della Fiom in piazza, questa non è certo una buona premessa per discutere di accountability delle forze dell’ordine. Ogni protesta viene considerata illegittima e il ripristino dell’ordine viene sostenuto anche da un governo come quello di Renzi.

Dopo i fatti di Genova i suoi studi hanno registrato il prevalere di un senso di impunità tra le forze dell’ordine?
Sicuramente. Nell’immediato Genova ha introdotto alcuni elementi di consapevolezza del rischio di creare una reazione nell’opinione pubblica a livello nazionale e internazionale, nella magistratura o nella cittadinanza. E infatti quegli episodi non si sono ripetuti, almeno con quellagravità. Dopo Genova si è però visto che in tante occasioni le azioni di violenza da parte della polizia non sono state sanzionate. Del resto il risultato dei processi genovesi è stato ambivalente. C’è stato il riconoscimento delle colpe di alcuni, ma molte altre non sono state registrate.

Perché è così difficile avere una cultura democratica nelle forze dell’ordine?
In tutti i paesi, anche democratici, la polizia tende ad avere uno spirito di corpo che si rafforza tanto più forti sono le critiche dall’esterno. Non c’è l’idea che l’opinione pubblica, le Tv o i giornali possano esercitare una funzione positiva. Certo le forze dell’ordine sono organismi complessi. Ricordo che al Social Forum di Firenze nel 2002 il Siulp-Cgil preparò un dossier per i poliziotti dove spiegava la natura sociale del forum e per evitare un’escalation. In generale c’è la paura di essere criticati dall’esterno per interventi troppo duri o, viceversa, troppo morbidi. In aggiunta a questo, nel caso italiano, c’è la competizione tra i sindacati. Ciascuno cerca di presentarsi in maniera più aggressiva degli altri per difendere i poliziotti.

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