Cultura

La dialettica vivente del sapere

La dialettica  vivente del sapereFoto Roby Schirer

Filosofia Il saggio «La parola universitaria» di Pierre Macherey. Il teorico francese analizza le conseguenze delle politiche neoliberista negli atenei. Con altrettanto rigore propone un ripensamento nella trasmissione della conoscenza a partire dalle relazioni tra i diversi campi disciplinari

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 11 settembre 2013

Cosa hanno in comune un film come Rope (Nodo alla gola, 1948) di Alfred Hitchcock e lo scandalo che coinvolse nel 1954 in America lo scienziato Robert Oppenheimer, direttore del Progetto Manhattan nonché padre della bomba A scagliata su Hiroshima e Nagasaki nel 1945? E soprattutto, questi due episodi, diversi per natura e funzione, come possono riguardare un’analisi sulle attuali condizioni del sistema universitario?
Ce lo spiega Pierre Macherey in La parola universitaria (traduzione e cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes, pp. 259, euro 17). Il libro, uscito in Francia nel 2011, fu segnalato da Roberto Ciccarelli sulle pagine de «il manifesto» il 29 ottobre dello stesso anno in un articolo pensato nella contingenza degli effetti, oggi più che mai disastrosi, prodotti dall’entrata in vigore della legge Gelmini alla fine del gennaio 2011.

Lo stesso testo di Macherey, d’altronde, è il frutto di una riflessione nata dalla sofferenza per lo stato di decadimento dell’università francese e per gli ancora più deleteri rimedi – di matrice neoliberista – usati per cercare di sanarla. Nell’introduzione al libro, L’Università in questioni, l’autore fa il punto della situazione rispetto al sistema universitario vigente in Francia caratterizzato dalla divisione tra Università e Grandi Scuole e constata che la visione ideale di una comunità di saperi democraticamente accessibile a tutti in realtà è contraddetta «nei fatti dal risorgere di una divisione diseguale, “aristocratica” che obbedisce ad una logica di verticalità, con differenti percorsi, gli uni consentiti alle “masse” cui sono offerte solo delle forme di competenze non sfruttabili direttamente, e gli altri riservati a delle “élites”, accuratamente selezionate, che si vedono promettere delle funzioni dirigenti nella società».

Ora, Macherey conosce troppo bene la lezione di Pierre Bourdieu, per non sospettare che un modello di analisi ben definito, anche lì dove si riferisce ad un conteso locale come quello francese, presenta un grado di universalità tale da poter essere applicato anche in contesti differenti da quelli rispetto ai quali è stato formulato. La situazione universitaria italiana si presta, purtroppo, a questo esercizio epistemologico: realizzata fino in fondo, la riforma Gelmini configurerà sul piano nazionale una netta divisone tra atenei del Sud, i quali, poco meritevoli per non riuscire a collocare i propri studenti sul mercato del lavoro, quindi poco «premeabili» dal punto di vista dei finanziamenti pubblici e di conseguenza poveri, saranno ridotti a mega-licei di massa buoni, tutt’al più, a fornire una didattica non professionalizzante e gli atenei del Nord che, ricchi di fondi per la ricerca grazie alla loro ricettività nei confronti delle esigenze del libero mercato e della grande imprenditoria, diverranno la palestra di formazione per le nuove classi dirigenti della borghesia italiana. Seguendo lo schema di Macherey si ritrovano, nella divisione francese tra Università e Grandi Scuole, non solo la finalità geopolitica della riforma Gelmini, ma le condizioni per la riproposizione di una nuova «questione meridionale» giocata al livello della formazione culturale superiore.

Non tutto il libro di Macherey, però, ha questo andamento, solo nell’introduzione il rigore argomentativo si concentra sullo stato attuale dell’Università (attualità che in tutti i suoi nodi problematici, in particolare quello relativo all’«ideologia della valutazione», è analizzata da Caridi nella sua presentazione del testo). I tre capitoli che lo costituiscono seguono un percorso sempre coerente rispetto al problema dell’Università, ma vanno in una direzione differente. Se l’introduzione si fa carico di problematizzare il presente universitario, gli altri capitoli si assumono il compito di tracciarne il passato a partire da diversi campi del sapere: filosofia, psicanalisi, sociologia e letteratura.

In questo modo, al primo capitolo spetta di presentare la situazione dell’Università tedesca attraverso lo scritto di Kant Il conflitto delle Facoltà del 1798, i due discorsi inaugurali tenuti da Hegel il 28 ottobre 1816 e il 22 ottobre 1818 per i rispettivi insediamenti nelle cattedre di filosofia delle Università di Heidelberg e Berlino, e il famigerato Discorso di rettorato tenuto da Heidegger il 27 maggio 1933 per la guida dell’Università di Friburgo. Nel secondo capitolo Macherey presenta l’Università francese degli anni Sessanta del Novecento facendo lavorare assieme le riflessioni che su di essa furono svolte da Jacques Lacan nel seminario Il rovescio della psicanalisi e da Bourdieu e Jean Claude Passeron in La riproduzione, e questo con buona pace di quella filosofia politica che, impunemente, crede di poter applicare le categorie psicoanalitiche alla comprensione del mondo sociale facendo a meno della mediazione della sociologia empirica. Infine, nel terzo capitolo, sono presentate le università immaginarie di scrittori come Rabelais (Gargantua), Hermann Hesse (Il gioco delle perle di vetro), Thomas Hardy (Jude l’oscuro) e Vladimir Nabokov (Pnin).

Ora, per quanto Macherey affermi, nelle conclusioni del libro, di essersi limitato a proporre una rilettura – «e niente di più» – di questi testi facendoli «dialogare fra di loro», in realtà, essi sono articolati da una logica stringente: se nel primo capitolo viene posta la tesi di un’università ideale (Kant, Hegel e Heidegger), nel secondo la si nega attraverso la verifica empirica di tutte le menzogne che si annidano nel discorso universitario reale (Lacan, Bourdieu e Passerron), nel terzo si riconfigurano, su di un piano simbolico, la dimensione utopica di un’università ideale (Babelais e Hesse) e quella fallimentare delle tante università reali (Hardy e Nabokov). Una ferrea logica dialettica.
Detto questo, al lettore rimane solo da scoprire quale legame potrà mai esserci tra un film, la bomba atomica e l’Università.

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