La dialettica di servo e padrone in una rapida danza fra i generi
Al cinema «Parasite» di Bong Joon-ho, film politico, commedia e horror sui rapporti di classe nella realtà di oggi. La povera famiglia Kim, che abita in un sottoscala, riesce a infiltrarsi nella casa dei ricchi Park
Al cinema «Parasite» di Bong Joon-ho, film politico, commedia e horror sui rapporti di classe nella realtà di oggi. La povera famiglia Kim, che abita in un sottoscala, riesce a infiltrarsi nella casa dei ricchi Park
Parasite parte subito con un piede rapido, danzando con disinvoltura su una coreografia delle più complesse. Nel seminterrato dove abita la famiglia Kim, la madre Chung Sook aspetta un messaggio da «Pizza Generation» per un lavoro sottopagato – si tratta di fabbricare scatole di cartone, come i carcerati del Buco di Jacques Becker – ma vitale per i Kim che non hanno più nulla da mettere sotto i denti (il padre Ki Taek raziona perfino una fetta di pane in cassetta). Ma il contratto telefonico non è stato pagato, e la signora del piano di sopra ha messo una password al suo wi-fi.
Che fare? Ki-woo scopre un micro hotspot in un angolo del bagno, vicino al wc sopraelevato. In tutta questa trivialità, fatta di dettagli infimi, una messa in scena millimetrica trasforma l’aneddoto in un quadro espressivo di vivido realismo; e ogni elemento immerge lo spettatore in un modo di vita che il regista si diverte a inscatolare in una matriosca di registri : il dramma sociale, che potrebbe essere quello di Ladri di biciclette, si ritrova così dentro una commedia alla Jean-Pierre Mocky (impossibile non pensare alla satira di Il cielo chiude un occhio), nella quale appare un thriller psicologico e perfino un horror, e dove ogni nuova figura, pur superando la precedente, ne conserva lo spirito. Così, già alla fine della prima sequenza ci si chiede: ce la farà a mantenere questo ritmo, al tempo stesso forsennato e rilassato?
BONG JOON-HO ha mostrato da subito di essere a suo agio in produzioni caratterizzate da una pluralità di toni e che richiedono non solo dell’abilità, ma una certa sfacciataggine unita al senso della misura (che è altra cosa rispetto alla moderazione). E in questo suo eclettismo c’è in primo luogo la capacità di fare un cinema pienamente iscritto nella (lunga e copiosa) tradizione dei film di genere dell’industria coreana, imbastardendolo però di temi e modi di fare del cinema europeo (e in particolare francese). Non c’è nulla da scoprire in questo senso in Parasite che non fosse già presente in Barking Dogs Never Die, in The Host o in Snowpiercer; la palma d’oro, più che meritata, ricompensa il lavoro di un cineasta che aveva già dato prova non solo della sua tecnica ma del suo estro. In Parasite c’è qualcosa in più: una difficoltà che Bong Joon-ho si è imposto e che ha superato con la naturalezza che è sempre il segno del genio.
Tra i vari generi c’è anche il film d’argomento politico-sociale. Parasite è stato presentato da più parti come una declinazione della lotta di classe – in particolare tra una famiglia del moderno sottoproletariato e un’altra della ricca borghesia. Non a torto. In effetti, la storia è quella di come i poveri Kim riescono, uno dopo l’altro, a infiltrarsi nella vita dei ricchi Park. Ed è vero che uno dei pregi del film è quello di mostrare con evidenza imparabile come il moderno classismo riporti d’attualità il classico teatro all’inglese del servo e del padrone, con la sua vecchia dialettica. Più che la barba di Marx, Bong veste qui gli occhiali del buon Hegel, così che, ogni volta che inquadra un oggetto, questo si invera nel proprio contrario.
E si capisce bene che Bong è maestro di questo processo perché non commette mai l’errore del principiante, che consiste nel trasformare semplicemente un polo nel suo opposto, ma mostra come per essere sé stesso un oggetto deve contenere anche il proprio altro: il servo, per compiere la propria essenza e diventare effettivamente servo, deve spadroneggiare (e inversamente).
È VERO anche per le cose: la casa del povero, come si vede fin nella prima scena, contiene una ricchezza (basta cercarla), e quella del ricco, per esser tale, deve a sua volta contenere un antro oscuro e insalubre. E infine è vero per i generi che il film attraversa, dialettizzandoli senza pudore, in una fuga in avanti che annulla gioiosamente ogni sentimento di ripetitività, pur producendo alla fine un film circolare (come nel modello, spesso evocato da Bong: il celebre The Housemaid di Kim Ki-Young). La dialectique peut-elle casser les briques ? – si chiedeva René Viénet in un film parodia del 73 – che di certo Bong conosce –, e al quale risponde, con Parasite, che di certo può schiacciare le blatte.
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