Prima di segnalarsi come uno dei politologi italiani più attenti alle forme odierne del populismo e ai nuovi linguaggi assunti dalle culture di destra, Marco Tarchi è stato a lungo un protagonista della scena politico-culturale animata da coloro che in un suo celebre libro ha definito come «esuli in patria»: quanti nell’Italia repubblicana continuavano a trarre a vario titolo ispirazione dell’esperienza fascista.

Già tra i principali dirigenti nazionali del Fronte della Gioventù, esponente di primo piano per tutti gli anni Settanta dell’area «eretica» e innovativa della destra giovanile, Tarchi fu espulso nel 1991 dal Msi, proseguendo a lungo il suo impegno sul piano intellettuale nell’ambito della cosiddetta Nouvelle Droite europea.

Ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, Tarchi è autore di oltre una ventina di libri, tra cui Cinquant’anni di nostalgia (1995), Esuli in patria (1995), Dal Msi ad An (1997), Fascismo. Teorie, interpretazioni, modelli (2003), Contro l’americanismo (2004), Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (2015) e ha curato il volume La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra (2010) e introdotto Destra/Sinistra. Storia di una dicotomia di Marcel Gauchet (2020).

Il politologo Marco Tarchi

Nel 1995, con «Esuli in patria», lei ha descritto il modo in cui la destra italiana percepiva se stessa e la propria presenza nell’Italia repubblicana. Dopo la propria vittoria elettorale, Giorgia Meloni ha parlato a più riprese di «riscatto», dedicando quel risultato a quanti sono morti senza poterlo vedere. Per il mondo missino e post-missino sembra chiudersi un ciclo, eppure quasi trent’anni fa, con Berlusconi, la destra era già arrivata al governo e, in seguito, ha guidato città, regioni, ministeri e occupato molti luoghi di potere: nelle parole di Meloni sopravvive un’identità «in trincea» in qualche modo superata dai fatti?
A giudicare anche dalla sua autobiografia (Io sono Giorgia, Rizzoli, 2021), gli anni della militanza giovanile le sono rimasti molto impressi e continuano a condizionare il suo immaginario. Lo si nota anche nella visione schematica e molto polemica che ha del mondo avversario, che le appare rimasto identico a quello conosciuto ai tempi dei cortei studenteschi e delle scaramucce di piazza. Mi sembra però che si tratti più di una sensazione emotiva che di un’elaborazione politica. Non ci leggo una nostalgia ideologica, ma un omaggio sentimentale a fatti e personaggi che non ha avuto modo di conoscere e di cui forse le è stata trasmessa un’immagine mitizzata. Non so se Esuli in patria sia stato fra le sue letture, ma credo che le sarebbe stato utile leggerlo per rendersi conto della complessità – vista dall’interno – di un microcosmo di cui, stando sempre alla sua autobiografia, ha un’idea decisamente edulcorata.

Molti analisti hanno guardato alla formazione di questo governo pensando soprattutto alle caselle «di peso» – l’economia o le relazioni internazionali -, dimenticando forse l’adagio secondo il quale «il diavolo sta nei dettagli» e che per chi intende mettere radici stabili nella società la cultura o i temi legati alla famiglia possono avere un valore ancora più grande. A suo giudizio a quali idee guarda il governo Meloni quando parla di «una nuova egemonia culturale» da costruire: un’egemonia per fare cosa?
Mi pare evidente il tentativo di impostare il confronto/conflitto con gli avversari, più che sulla linea tradizionale destra/sinistra, sullo spartiacque conservatorismo/progressismo, e di affrontarlo in primo luogo sul terreno culturale. D’altro canto, da mezzo secolo in qua è in questo campo che la sinistra ha fatto maggiori passi avanti nei suoi sforzi di penetrazione nell’immaginario collettivo. La trasformazione in «diritti civili» di molte istanze tipiche della visione del mondo progressista – e fondate su istanze individuali piuttosto che collettive – ha costretto la destra ad una continua serie di arretramenti e sconfitte. Una controffensiva non può che partire da lì. Tanto più che, come in Francia dimostrano i casi di Onfray e Michéa, negli Stati Uniti quello di Lasch e in Italia almeno in parte quello di Ricolfi, alcuni temi conservatori possono fare breccia anche a sinistra. Che poi nei fatti la destra attuale sia attrezzata a questa battaglia, è tutt’altro discorso. La strategia lessicale, con il cambio di nome dei ministeri, non può certo bastare.

Sul piano della sfida culturale (ma anche politica) alla sinistra sembra emergere una strategia, quella che anche simbolicamente è stata ribadita di recente a Roma dalla kermesse «Italian conservatism» che ha messo insieme esponenti politici del mondo conservatore, seppure tra i più radicali, con figure delle nuove destre europee. L’idea sembra essere quella di mescolare culture, e culture politiche, definendo un nuovo quadro unitario. Ma davvero si possono mettere insieme Reagan e Thatcher con chi guarda ancora a Francisco Franco o all’eredità di Giorgio Almirante: e se è possibile farlo, con quale risultato?
Non è un’impresa facile, e richiede la capacità di polarizzare l’opinione pubblica attorno ai temi etici, gli unici che – agitando lo spettro della cancel culture, della gender theory, dell’ideologia woke, dello strapotere della lobby Lgbtq+ e via elencando – possono giustificare e motivare la nascita di un fronte comune. Va detto però che oggi anche il mondo progressista, se si esce da questioni come quelle ora elencate, appare frammentato e slabbrato come mai prima. E il collante tradizionale dello spauracchio fascista, sebbene venga costantemente riproposto in sede politica e intellettuale, a guardare i dati elettorali non sembra dare frutti significativi.

Lei è stato fino alla fine degli anni Settanta un dirigente di primo piano del Fronte della Gioventù e da tempo è un attento studioso delle culture di destra e del populismo: per comprendere «il fenomeno Meloni» e ciò che dobbiamo attenderci da questo governo si deve guardare più al passato di questa destra o ai suoi attuali legami con il populismo nazionalista, da Vox a Orbán?
In questa seconda direzione, ma con un distinguo. A sinistra si confonde spesso il populismo con il sovranismo. I due fenomeni possono a volte presentarsi insieme, ma sono diversi. Nel populismo ci sono una vocazione alla trasversalità e un’attenzione ai bisogni degli strati più bassi della società di cui non c’è traccia negli odierni partiti sovranisti, e c’è una diffidenza verso l’eccessiva intrusione dello Stato nelle attività della «gente qualunque» che è l’opposto di quanto quei partiti predicano. Il populismo di Marine Le Pen per costoro è decisamente di sinistra. E non è un caso che in Francia Meloni e i suoi tifassero per Éric Zemmour, che voleva a gran voce l’unione delle destre.

A proposito di Meloni e di quanti al suo pari, pur diversi per età e formazione, vengono dalla storia della sezione missina di Colle Oppio a Roma, si è parlato di «generazione Tolkien», mentre alcuni accenti della critica da destra alla globalizzazione – come il riferimento alla «sovranità alimentare» – sembrano riecheggiare le idee della «Nouvelle Droite». Quanto deve, almeno in origine, alle esperienze e alle analisi politiche, culturali e «comunitarie» di cui anche lei fu protagonista la destra che oggi guida il Paese?
Sarò di parte, ma a mio avviso ben poco. Se gli ex giovani di Colle Oppio si ispirassero alla tesi della Nouvelle Droite, non potrebbero certamente dirsi atlantisti o giudicare indispensabile il legame con gli Stati Uniti, non seguirebbero indirizzi liberali di politica economica, non farebbero di una forma piuttosto arcaica di nazionalismo la propria bandiera, non giudicherebbero attuale il discrimine destra/sinistra, avrebbero opinioni in materia di geopolitica radicalmente diverse da quelle che oggi professano. Qualcuno di loro può anche citare Alain de Benoist, ma se lo ha letto, certamente lo ha letto male.