È la cronaca di una sconfitta annunciata: dopo decenni di dominio del centrosinistra, la destra è riuscita ad espugnare le Marche. E lo ha fatto in maniera piuttosto netta, confermando i numeri dei sondaggi della vigilia: a tre quarti delle sezioni scrutinate Francesco Acquaroli (Fdi) è al 47,5%, mentre Maurizio Mangialardi (Pd) è al 37,9%, Gian Mario Mercorelli (M5S) al 8,9%, Roberto Mancini (sinistra) al 3,1% e Fabio Pasquinelli (Comunisti di Rizzo) all’1,6%.

A voler fare di conto, si potrebbe dire che con i pentastellati in coalizione il centrosinistra si sarebbe giocato la vittoria, ma è un calcolo poco più che ozioso. Il Pd ha pagato un conto salatissimo per gli ultimi cinque anni: tra terremoto, fabbriche chiuse e una riforma sanitaria mai decollata è difficile trovare qualcuno che abbia deciso di sposare in toto la linea dell’amministrazione.

Anche tra i militanti, insomma, più che aria di entusiasmo si è sempre respirata aria da difesa della roccaforte, un tentativo infine non riuscito di levata di scudi contro i barbari alle porte.

E però non è bastato: Acquaroli ha vinto in quattro province su cinque, sfondando le linee del Pd addirittura nella rossa Pesaro. Soltanto la provincia di Ancona è ancora colorata di rosso, merito per lo più della sindaca Valeria Mancinelli, che a un certo punto, prima del lockdown, era in corsa per la candidatura alla presidenza.

Per quello che riguarda i voti di lista, il Pd riesce comunque ad affermarsi come primo partito con il 26,3%, segue la Lega con il 22%, e poi Fratelli d’Italia con il 17,8% e il M5S con il 7,8%. Il centrosinistra, in questo senso, sconta una coalizione debolissima: Italia Viva si ferma a un non edificante 2,8%, tallonata dalla lista ecologista Rinasci Marche (2,6%) e dalla lista Mangialardi Presidente (2,2%).

Non bene Marche Coraggiose (1,7%), unione di pezzi della sinistra e fuoriusciti del M5S. La lista Dipende da Noi del filosofo Roberto Mancini si è fermata al 2,6%.

Per il Pd si tratta dell’atto definitivo di una classe dirigente che pare essere ormai arrivata al capolinea: i padroni del partito, d’altra parte, hanno fatto e disfatto a proprio piacimento.

Dalla fine di febbraio, quando è stato fatto fuori senza tanti complimenti l’uscente Luca Ceriscioli, alla scelta di Mangialardi presa in un baleno, sono stati bruciati due candidati: Mancinelli e, soprattutto, Sauro Longhi, l’ex rettore dell’Università di Ancona sul quale si sarebbe trovato un accordo anche con il M5S e con la sinistra.

I vertici del Pd, dal segretario Giovanni Gostoli in giù, hanno optato sempre per la soluzione interna, andando poi dagli alleati a presentare un piatto pronto e due sole alternative: prendere o lasciare. Il segretario Nicola Zingaretti ha osservato e lasciato fare, quando poi è venuto nelle Marche a fine agosto a tutti gli incontri ha sottolineato che ogni scelta è stata fatta dalla dirigenza locale, sottintendendo di non avere colpe né responsabilità.

Più che uno scaricabarile, un marchio che nel futuro peserà parecchio sui destini del partito marchigiano. Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci la vede così: «C’è grande rammarico. Se il M5S avesse fatto l’alleanza, avremmo vinto la quarta regione. Con le vittorie in Campania, Toscana e Puglia si rafforzano Zingaretti e il Pd».

Il vincitore Francesco Acquaroli si è presentato davanti ai giornalisti con la faccia stravolta e, confermando quanto aveva già fatto vedere durante la campagna elettorale, non ha speso tante parole, limitandosi a sottolineare quanto la sfida sia stata «estenuante» e dichiarando di aver perso ben 10 chili in poco più di un mese.

Da parte sua, Mangialardi ha condotto una campagna elettorale onorevole, girando in lungo e in largo le Marche, provando a convincere che lui sarebbe stato comunque qualcosa di diverso rispetto al passato. Forse sarebbe stato vero, però le liste del centrosinistra sono state comunque riempite da esponenti della vecchia giunta. Difficile convincere le persone di essere qualcosa di nuovo, quando vicino a te ci sono le stesse facce di sempre.