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La democrazia difesa nello spazio internazionale

Elon Musk al raduno trumpista al Madison Square Garden di New York - foto ApElon Musk al raduno trumpista al Madison Square Garden di New York – foto Ap

Opinioni La polemica sull’attacco di Elon Musk ai giudici italiani che vagliano le deportazioni dei migranti in Albania rischia di ridursi nell’angusto perimetro nazionalista

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 16 novembre 2024

La polemica nata dall’attacco di Elon Musk ai giudici italiani che vagliano le deportazioni dei migranti in Albania rischia di far perdere di vista importanti distinzioni, riducendo la difesa della democrazia all’angusto perimetro della sovranità nazionale. Certo, l’esercizio del proprio ruolo di garante da parte del Presidente della Repubblica ha fatto masticare amaro quanti, a destra, si disponevano a fare a gara per chi meglio cavalca l’onda statunitense, che promette di travolgere tutto a suon di ordini esecutivi basati su un consenso elettorale soi disant plebiscitario.

Tuttavia, il dibattito rischia di spingersi in un campo in cui la democrazia fatica ad imporsi. Diversi commenti hanno sottolineato come, a parti invertite, il caso Musk non sia altro che la riedizione della polemica, solitamente accesa da destra, che accompagna ogni dichiarazione di esponenti politici europei sulle questioni italiane, oppure ogni critica proveniente da una Ong straniera, si tratti dei conti pubblici o dello stato di diritto. In realtà, è più che legittimo che un ministro di un paese dell’Unione europea (che oggi si chiama Unione non per caso) e ancor più un deputato del Parlamento europeo si esprimano su vicende che qualcuno ritiene ‘di casa’, ma che in realtà sono parte di uno spazio politico, economico e sociale nel quale abbiamo liberamente deciso di condividere quote di sovranità. È altrettanto legittimo che emergano contestazioni quando viene meno il rispetto degli impegni in materia di diritti fondamentali per i quali esiste un vincolo nel diritto internazionale che la Costituzione repubblicana recepisce.

I regimi autoritari hanno sempre accolto i rapporti di Amnesty International rigettando l’ingerenza negli affari domestici. La nozione stessa di non-ingerenza – l’invocazione della sovranità come giustificazione assoluta – ci riporta alle fasi buie della Guerra Fredda, quando essa veniva celebrata, fatti salvi i pesanti interventi nelle vicende politiche di paesi-satellite ed alleati. Essa ricorda le reazioni delle giunte militari africane, o la risposta della Cina alla denuncia delle persecuzioni di minoranze e oppositori. Una strada ben nota, lungo la quale, Mosca docet, anche paesi nominalmente democratici come Georgia e Turchia stanno introducendo sempre più filtri nella sfera pubblica, nonché leggi che marchiano gli ‘agenti stranieri’, blindando gli esiti della competizione politica.

È comprensibile che, nell’opporsi al tentativo di imporre una versione unidimensionale della democrazia, vengano enfatizzate le difese di cui dispone il nostro ordinamento. Tuttavia, ridurre tutto a una questione di sovranità (‘si facciano gli affari loro’) avrà conseguenze negli scenari incerti che ci attendono. Il problema non sono tanto quei commenti che equiparano le dichiarazioni di una ministra francese o di Carola Rackete al progetto politico di Elon Musk. Certo, per confutare tale analogia è sufficiente richiamare gli accordi che l’impero economico di Musk sta negoziando con l’Italia in ambiti strategici, oliando un disegno politico reazionario che si mostra insofferente verso ogni regola. Se mettiamo da parte il campo liberale – spesso incapace di vedere la minaccia che scardina gli ordinamenti liberali stessi – il problema è piuttosto quanto fievoli siano, nel campo progressista, i soggetti impegnati a rivendicare la dimensione internazionale della democrazia.

Per quanto la creazione e il mantenimento di una democrazia richiedano l’impegno sostanziale di forze politiche interne, è fuorviante pensare ad essa come un mero attributo domestico, ignorando il contesto internazionale nel quale la grande maggioranza delle ‘democrazie reali’ si è storicamente profilata: iniziando con gli stessi Stati Uniti, una buona metà emerge da processi di decolonizzazione che hanno riguardato l’Impero Britannico. La gran parte delle altre democrazie (Italia compresa) è nata dalla vittoria alleata nella Seconda Guerra Mondiale e da transizioni da regimi autoritari verso la fine della Guerra Fredda: una parte da alleati degli Usa (America Latina) un’altra parte in uscita dal socialismo reale (Europa Orientale). Le rivolte arabe del 2011 e il loro fallimento nel dar vita a regimi democratici non sono fenomeni domestici fra loro isolati. Molti dei processi di incubazione e sfaldamento della democrazia hanno natura contingente e reversibile: sono influenzati da complesse dinamiche di contagio, consenso e controllo che coinvolgono stati, soggetti non-governativi e processi sociali diffusi, ed è problematico tracciare una linea netta fra attori e fattori domestici ed internazionali.

Volendo ridurre all’osso, la democrazia può essere vista come il prodotto di garanzie istituzionali relative a due dimensioni: il grado di competizione (contestation) e di partecipazione (inclusion). Proprio da quest’ultima dimensione provengono forse le notizie più incoraggianti, in un quadro globale in cui il democratic backsliding interessa ormai in modo conclamato anche i paesi ricchi. A diverse latitudini persistono e si moltiplicano domande di partecipazione e cambiamento: sarebbe un errore per la sinistra non saperle leggere, ingabbiandole nell’accettazione irriflessiva della sovranità nazionale come pietra angolare di ogni politica democratica. Questo è tanto più vero in un’Italia a guida sovranista e in un’Europa che ha più che mai bisogno di mostrarsi protagonista, mentre la formazione dei governi nazionali è condizionata – nello spazio sovrano francese così come in quello tedesco -dall’ombra dell’estrema destra.

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