Dalla School of Oriental and African Studies di Londra all’Università di Bologna, gli studenti universitari chiedono l’inclusione di pensatori non europei nei loro curricula, nonché l’acquisizione di una maggiore consapevolezza storica dei processi coloniali e dei loro effetti. I riflettori della stampa internazionale sono accesi sull’attivismo studentesco, tuttavia non sono solo gli studenti universitari ad interrogarsi su questi temi ma anche i loro insegnanti. Ma di cosa discutono questi accademici?

PARTIAMO DA ALCUNI DATI di fatto. Dal colonialismo europeo fino ad oggi, linguaggi e idee emerse dalla specifica esperienza storica europea dominano i saperi disciplinari e i processi di formazione nei paesi occidentali e postcoloniali. Riguardo discipline come la filosofia politica, molti laureati in «filosofia» o «dottrine politiche» non conoscono quasi niente di filosofie africane, indiane, giapponesi, cinesi, islamiche, o aborigene, perché hanno seguito solo corsi di filosofie occidentali.

Il rischio è quindi che si finisca per pensare che la filosofia sia la filosofia occidentale e che non ci sia pensiero politico al di fuori della tradizione europea. A fronte di questa situazione, diversi pensatori africani, asiatici, e sudamericani chiedono la «decolonizzazione del pensiero politico». Il loro obiettivo è, per usare le parole del teorico latino-americano Walter Minolo, «delinking»: staccarsi dalle categorie concettuali fondamentali del pensiero occidentale (come il concetto di libertà, democrazia, persona, giustizia, morale, vita, morte, verità, comunità, natura) per ricercare forme di pensiero legate alle loro tradizioni culturali autoctone.
È questo un rifiuto totale di idee straniere? Non secondo il filosofo africano Kwasi Wiredu. Per Wiredu, la decolonizzazione concettuale invita all’acquisizione di una prospettiva critica e all’uso di risorse concettuali autoctone. In altre parole, la de-colonizzazione è un processo di «liberazione intellettuale», non di emancipazione come fu il post-colonialismo. Quindi, lo scopo è sviluppare nuove visioni di «modernità», anziché inseguire l’idea di modernità occidentale.

MA PERCHÉ SI ESIGE un ripensamento proprio dei concetti fondamentali del pensiero politico come «democrazia» e «giustizia»? Che c’entra la filosofia con le odierne società postcoloniali? Questi concetti sono principi normativi ed in quanto tali implicano una valutazione su come una società deve o non deve essere, su che cosa è giusto o sbagliato. Dunque, usando esclusivamente categorie concettuali occidentali, i pensatori locali perdono la capacità di formulare giudizi basati sulle loro esperienze e tradizioni. Inoltre, secondo il politologo indiano Aditya Nigam, spesso l’avvalersi di concetti occidentali per capire e giudicare le società postcoloniali denota qualcosa di profondamente sbagliato in queste ultime. Ma com’è possibile, dice Nigam, che noi, ovvero l’80 per cento della popolazione mondiale che vive fuori dall’Europa e dal Nord America, è sempre in errore? Se i concetti sono uno strumento politico, un nuovo apparato concettuale diventa uno strumento liberatorio necessario.

QUESTI DIBATTITI accademici confermano la crisi dell’Occidente sullo scacchiere internazionale ma hanno anche un potenziale filosofico senza precedenti, perché mirano a destabilizzare concetti politici fondamentali del pensiero occidentale. Inoltre la decolonizzazione può rimediare parzialmente ad alcuni degli effetti dell’egemonia coloniale: creare una nuova generazione di asiatici, africani, latinoamericani, arabi più consapevole delle proprie tradizioni culturali, e cittadini europei e nordamericani più cosmopoliti.

C’è da chiedersi se la decolonizzazione non sia allo stesso tempo un processo politico rischioso. Per esempio, è vero che il concetto di «democrazia» è una parte fondamentale della retorica occidentale di modernità. Inoltre, il trapianto di strutture liberali democratiche fuori dall’Occidente ha generato diversi problemi e continua a crearli tuttora. Si pensi alla continua instabilità politica di diversi paesi africani. Ma in una società politicamente instabile, fazioni politiche locali di tendenza autoritaria possono usare la decolonialità per giustificare repressioni e riduzioni dei diritti fondamentali. Se la democrazia è concepita come un concetto estraneo alla propria identità culturale, si corre il rischio di sostituirla con un ordine politico non-democratico o di matrice più autoritaria. Questo non è l’obiettivo dei pensatori citati sopra, anche se il rischio che il loro argomento venga strumentalizzato rimane.

QUAL È LA SOLUZIONE? I pensatori decoloniali devono «ingoiare il rospo» della democrazia liberale? Accettare che, malgrado i suoi problemi, questa rimane «the end of history», come affermò il politologo americano Francis Fukuyama? Assolutamente no! Primo, dobbiamo distinguere l’idea di democrazia dalla democrazia liberale per aprire il dibattito a nuove forme concettuali. Secondo, i rischi di manipolazione non implicano che la decolonizzazione della democrazia o di altri concetti politici sia impossibile. Piuttosto, questi rischi indicano che la decolonizzazione di un’idea politica di questa portata è un’operazione delicata che deve essere affrontata nella consapevolezza del contesto in cui si opera. La scommessa è quindi nel riuscire a de-colonizzare senza essere ri-colonizzati.