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La debolezza, italiana, di non saper investire nei progetti per il futuro

La debolezza, italiana, di non saper investire nei progetti per il futuro

Recovery Degli 11 miliardi stanziati nel 2018 per il dissesto idrogeologico solo 1,5 miliardi sono stati spesi perché i comuni, con fondi decurtati, non riescono a progettare le opere

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 2 agosto 2020

Nonostante fragilità e incompiutezze, la svolta dei 750 miliardi di euro di Next Generation Eu pone le premesse per una nuova stagione del progetto europeo, dimostrandone una forza perdurante. È dunquetanto più sconcertante che in Italia la discussione si concentri sul chi e il quanto delle risorse. Con l’unica logica di rivendicarne sempre di più sapendo che, se fosse seguita alla lettera, porterebbe, per esempio, le erogazioni di cassa integrazione e di sussidi vari a raggiungere livelli stratosferici.

E invece viene largamente trascurata la riflessione qualitativa sulla costruzione e sui contenuti dei progetti che vanno urgentemente predisposti per dar vita a quegli investimenti, specie pubblici, di cui il paese ha disperato bisogno e alla cui presentazione è subordinato l’accesso ai 390 miliardi a fondo perduto del Recovery Fund.

Prevale la tendenza a suggerire misure – come nel caso dell’istituzione nel Mezzogiorno di zone franche fiscali – che hanno comunque il carattere dei sostegni monetari, anziché fornire indicazioni di merito, puntuali nei contenuti e qualitativamente articolate. Su quest’ultimo fronte ci si limita a elenchi abbastanza scontati di esigenze generali e generiche o ci si rifugia nell’ambito delle ipotesi per le grandi infrastrutture che, presidiati come sono da istituzioni dalle spalle larghe quali le Ferrovie, offrono un terreno già arato dal quale trarre proposte di investimento al tempo stesso cospicue e ragionevolmente sicure, come quella necessaria di estendere l’alta velocità in tutto il paese.

Ma fare di “progetti”, “programmazione”, ”capacità progettuale”, “investimenti” le vere parole chiave vuol dire molto di più, perché qui è in gioco la possibilità di mutare radicalmente il modello di sviluppo, ponendo un neo-umanesimo del lavoro (critico con le devastazioni provocate dall’antropocene) al centro di un “nuovo inizio”.

Con le parole di Romano Prodi “serve un piano dello Stato”, perché solo le istituzioni pubbliche possono dare la priorità alla riconversione ecologica, alla domanda interna, ai consumi collettivi, ai bisogni sociali insoddisfatti. Ci sono da affrontare necessità impellenti nella sanità e da esplorare le possibilità dell’idrogeno e delle fonti energetiche alternative. Ma anche in altri ambiti le linee preferenziali lungo le quali ideare e progettare, quando dettagliate, legittimano grandi speranze.

Basteranno alcuni esempi: 1) tenuta del territorio, riassetto idrogeologico, salvaguardia e valorizzazione del paesaggio naturale e artistico (tutela dei bacini idrici, gestione dei corsi dei fiumi, consolidamento dei terreni franosi, messa in sicurezza dagli eventi sismici, manutenzione della viabilità extraurbana, tutela delle spiagge, bonifiche e trattamenti dei rifiuti, infrastrutturazione dei porti…), tutti ambiti da cui possono scaturire tecnologie alternative da utilizzare anche altrove; 2) rilancio delle città, con la valorizzazione degli innumerevoli beni culturali, l’attribuzione di maggior valore alle attività di “cura”, la bonifica e l’innalzamento della qualità della vita nelle periferie, la contrazione dei consumi energetici, l’infrastrutturazione digitale, la nuova mobilità e i nuovi assetti anche in relazione alla modifica delle funzioni tra centro e quartieri periferici; 3) scuola e Università, con la manutenzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio, il reclutamento e la formazione del personale, l’offerta di materiale didattico digitale, il completamento dell’obbligo, l’aumento del numero dei laureati, la messa in opera di un sistema di formazione permanente, uno shock da imprimere alla ricerca di base, il superamento del gap formativo tra Nord e Sud.

D’altro canto, è sul terreno della mancata accumulazione di un adeguato stock di progetti che osserviamo la cruciale carenza italiana, se è vero che a tutt’oggi, anche a prescindere dalle enormi risorse finanziare che sta approntando l’Europa, degli 11 miliardi che già nel 2018 risultavano da noi stanziati per far fronte al dissesto idrogeologico (che minaccia l’80% dell’Italia, aggredita da una tropicalizzazione incipiente apportante la ripetizione di eventi climatici estremi) ne registriamo spesi solo 1,5 miliardi e questo perché i comuni, con fondi decurtati, non riescono a compiere la progettazione delle opere loro spettante.

Paghiamo a caro prezzo l’arretramento del perimetro pubblico voluto dall’ostilità allo Stato del neoliberismo, espressosi in esternalizzazioni e privatizzazioni che hanno svuotato, depotenziato e dequalificato le capacità pubbliche.
Il comune di Roma deve il degrado delle sue bellissime ville anche alle politiche di tagli che, tra l’altro, l’hanno portato a disporre di non più di 2000 giardinieri a fronte dei circa 20.000 dell’epoca Petroselli e le amministrazioni tutte debbono al blocco del turnover la mancanza di circa 500.000 lavoratori che lasciano vuote altrettante posizioni cruciali: geologi, archeologi, urbanisti, architetti, esperti in beni culturali, pianificatori, economisti, informatici, operatori sanitari e della cura.

Ma a questa situazione deprimente non bisogna rassegnarsi come è implicito, invece, quando si ricorre in modo massiccio e deresponsabilizzante a trasferimenti monetari, bonus, incentivi fiscali. Il paradigma e la strumentazione vanno rovesciati, iniziando a restituire alle istituzioni pubbliche una tempestiva e incisiva capacità di ideazione e di progetto.

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