Quando racconto che ho incontrato il mio compagno di vita ballando, in campo Santa Margherita, a Venezia, durante il festival Venezia Poesia, la cosa è talmente fuori dal comune che quasi non ci credo nemmeno io. Lo so, fa un po’ soap opera, eppure è andata davvero così. Devo tuttavia aggiungere che prima di arrivare a cotanto incontro del destino ho incrociato, anche danzantemente parlando, una tale serie di delusioni che alla fine una ricompensa me la meritavo. Dopo il babbo che mi insegnò il valzer nelle balere della Bassa, la mia amica Antonia compagna di danze scatenate nelle feste private, i corsi di vario tipo, ho ballato in lungo e in largo anche in discoteche e luoghi pubblici. Chissà quanti incontri, penserete voi. Ebbene no. La ragione, che io chiamo La teoria di Gianni, ve la spiego alla fine. Se frugo nella memoria sono due gli episodi che dimostrano come il ballo può essere tanto inclusivo quanto escludente.

È AUTUNNO, traghetto Sardegna – Livorno, viaggio di ritorno da una missione di lavoro, uno di quei tour di promozione turistica organizzati per i giornalisti, l’atmosfera è cordiale e rilassata. Dopo cena la compagnia navigante organizza nel salone della nave una serata di musica. La pista è grande, ai tavoli siedono non troppe persone, l’orchestra suona di tutto, successi anni Ottanta, rock and roll, ballabili di coppia, danze latino americane. A un certo punto attaccano un valzer e sulla pista sale un signore non alto, non snello, in jeans e camicia a quadri che comincia a volteggiare velocissimo e come una piuma. Il contrasto fra l’aspetto appesantito e la grazia dei movimenti è impressionante, è come se dentro un corpo più largo che lungo si nasconda lo spirito di Fred Astaire. L’orchestra attacca un altro valzer. Mi viene una nostalgia acutissima. Guardo i miei compagni di viaggio. «Qualcuno di voi sa ballarlo?». A momenti si nascondono sotto il tavolo.

L’UOMO con dentro Fred Astaire è sulla pista, si guarda attorno alla ricerca di una ballerina. Tiro fuori il mio lato sfacciato, gli vado incontro e gli chiedo, contravvenendo a tutte le regole del galateo danzerino: «Mi fa ballare?». Mi squadra. «Conosce il valzer?». «Certo». «Vediamo» risponde e, così dicendo, mi afferra e comincia a roteare come una trottola. Era dai tempi di mio padre che non trovavo uno che sapeva ballare il valzer con tanta fluidità e leggerezza. Anzi, nemmeno sapeva disegnare con i piedi cerchi così precisi e incalzanti da trasformare l’un, due tre in un uno. Una meraviglia. Il valzer finisce, il mezzo Fred Astaire non dice nulla. Aspettiamo.
L’orchestra attacca un tango nostrano. «Lo conosci?», mi fa lui. «Un po’», gli rispondo sapendo che non è il mio forte. Facciamo due passi, fatico a stargli dietro, lui si ferma e mi dice: «Non lo sai» e mi butta di lato come un oggetto non più utile. Usata e gettata senza neanche far finta di cercare un’intesa o salvare le apparenze. È così che si sceglie il bestiame, ti guardano in bocca, le terga, i garretti, i fianchi, le mammelle, la stazza, misurano quanti salami o bistecche o latte possono cavare da te e decidono se comprarti o venderti. Chissà da quale recondito angolo della genetica o della memoria gli spuntava quel brandello di Fred Astaire. Avevo davanti un enigma, o forse uno abituato a prendere solo quello che gli conveniva, in perfetta sintonia con i propri piedi, ma del tutto dissociato dalla capacità emotiva.

Di tipo diverso, del tutto classista, fu l’esclusione che incontrai a Capri. Ero stata mandata in missione dall’allora direttrice di «Amica», Maria Laura Rodotà, per tastare le possibilità di cuccaggio di una donna in vacanza da sola. Nell’albergo dove dormivo, in pieno centro dell’isola, quella sera si teneva una festa danzante aperta a tutti. Mi sedetti su una poltrona a osservare la situazione. Uomini soli ce n’erano pochi e vagavano con l’aria annoiata, le spalle un poco ricurve e il passo strascicato di chi è lì per ammazzare il tempo o cercare un’avventura poco impegnativa. La maggior parte degli avventori erano uomini e donne sui trent’anni agghindati con tutto l’armamentario che reclama uno status sociale: abiti firmati, gioielli vistosi, tacchi iperbolici, boccoli freschi di parrucchiere, camicie aperte su petti abbronzati, mocassini senza calze, giacche di ottimo taglio. Era la gioventù benestante di Napoli. Si conoscevano tutti, si salutavano con mille effusioni, sfoderavano una gestualità messa a punto in anni di frequentazioni, recitavano una coreografia dell’ego che serviva a esibire il valore di ognuno, il proprio peso sociale ed economico, le sicurezze date dal patrimonio di mammà e papà. Osservavano attenti chi li osservava, nessuna mossa, nessun sorriso, nessuna conversazione era casuale. Iniziarono le danze, ma loro ballavano poco e pure maluccio. Non gli interessava la danza, ma la mostra di sé. Mi alzai e mi inserii nel ballo.

C’ERA NELL’ARIA qualcosa di pesante che frenava la spontaneità e soffocava la pura gioia che dà il movimento libero. Nessuno mi degnò di uno sguardo. Ero per loro trasparente, non appartenevo a nessun gruppo, nessuna famiglia, nessun clan, ero straniera, non riconoscibile e non riconosciuta. Misurai il peso del disinteresse, la totale assenza di curiosità. Avrei potuto ballare come Lola Falana e loro non se ne sarebbero accorti. Ero capitata in un mondo spaventosamente autoreferenziale. Lasciai Capri e la sua gioventù egotica senza un rimpianto né un ricordo gentile. Anzi uno sì, quello del tassista che mi portò al traghetto e mi offrì un pezzo della sua focaccia con mortadella perché era ora di pranzo e «Signorì è così grande che possiamo dividerlo in due e poi non mi piace mangiare da solo».

Mi ero divertita molto di più quel pomeriggio in un centro ricreativo, a Milano, dove ero andata per raccontare come gli anziani trascorrono il tempo. L’età media era sugli ottanta, molti avevano mal di piedi, di schiena, di ginocchia, eppure non restavano seduti. Ricordo come ora la gioia di quel signore con stampella e bombola di ossigeno sulle spalle che mi invitò e, data la sua difficile mobilità, trasformò un valzer in mazurka, ma con passi perfetti e un raggiante sorriso dall’inizio alla fine. Loro sì che sapevano cos’è la vita.

A VENEZIA decisi di andare dopo mille tentennamenti causa le molte cose da fare. Fu una scelta del destino. Era un sabato di luglio e l’ultimo giorno del festival Venezia Poesia organizzato da Nanni Balestrini. La sera, alla fine di tutto, si sarebbe tenuta una festa danzante. Le musiche le aveva selezionate Valeria Magli, c’erano molti amici e fu spontaneo lanciarsi a ballare in mezzo alla piazza. La luce era trasparente, l’aria leggera, l’atmosfera festosa, la gente aveva voglia di divertirsi e allora via a ballare con questo, con quello, con quella, con gente conosciuta, con sconosciuti, da sola. A un certo punto lo vidi. Era più scatenato degli altri. Ci guardammo da lontano, ancheggiando e saltando ci avvicinammo, uno inventava un movimento, l’altro lo imitava. Giocavamo a provocarci a vicenda. Furono tre ore di intreccio di danze, sguardi, sorrisi. Io non sapevo nulla di lui, lui non sapeva nulla di me eppure sapevamo già tutto. Alla fine, sudati e ridenti, ci sedemmo a bere e riprendere fiato e solo lì ci presentammo. Io mi chiamo, tu ti chiami, io vivo a Milano, io fra Ginevra e Parigi, ma tu cosa fai, informazioni che non aggiungevano nulla alla sostanza già intuita da entrambi, ovvero che quello poteva essere un vero incontro. Se due sconosciuti si intendono così quando ballano possono avere molto altro da dirsi. È da ventiquattro anni che ci diciamo e facciamo cose insieme, un record per tutti e due.

TEMPO dopo, raccontando ad amici quella serata, il mio amico Gianni, che vi aveva assistito, spiegò la sua teoria. Gianni sostiene che mentre ballavo a poco a poco vide farsi il vuoto attorno a me e Lui venire avanti, l’unico che osò raccogliere quella sfida. Quando si balla si dice molto di sé, ci si snuda offrendosi agli sguardi altrui. Ballare è un atto di libertà, fiducia e generosità assolute. Il ballo sincero non si addice agli avari.
4. fine