Il suo caschetto irriverente si affaccia qua e là nei luoghi del festival: Agnès Varda è il Pardo d’oro di Locarno 2014. La cineasta francese, unica donna regista della Nouvelle Vague, che nella sua ricerca precorre (peraltro come molti altri filmmaker della sua generazione) quella contaminazione tra cinema e arti visive a partire dalle stesse immagini, pratica ora così attuale nelle nuove generazioni dei registi (pensiamo a una Biennale Arte di Venezia con l’installazione dal film Les glaneurs etla glaneuse), è un po’ la punta di un omaggio alla Nuova onda francese che ha attraversato una parte del festival. La pre-inaugurazione è stata coi 400 colpi di Truffaut, c’è poi l’omaggio a a Jean Pierre Leaud, e infine Sils Maria, magnifico nuovo film di Olivier Assayas, in gara a Cannes e qui nella Piazza Grande, seppure legato a un premio alla sua protagonista, Juliette Binoche, opera di un regista in cui l’affinità (a distanza) nouvellevaguistica è dichiarata dai primi film.

Eppure di Nouvelle Vague finora nelle diverse sezioni del festival, la cui altra anima è attraversata dalla superba retrospettiva Titanus, curata con acutezza critica da Sergio Germani e da Roberto Turigliatto, e accompagnata da un ottimo volume stampato come raramente ormai capita, ne abbiamo trovata finora poca. E neppure della spregiudicatezza che affiora nella filigrana della pellicola, forse per l’ultima volta, nei bianco e nero di luce di un Zurlini, L’estate violenta, presa di consapevolezza della storia, nel melodramma di un amore estivo. Lui Trintignant, lei Eeleonora Rossi Drago, la donna vedova di guerra e il ragazzo, si sfiorano in una lunga danza notturna, escono in giardino e prima del bacio la carica erotica è esplosa sullo schermo. Sensualità nei tagli della censura, morbidezza aguzza di una tensione estrema, resa messinscena, inquadratura, passione.

Che festival è allora Locarno 2014, secondo anno di direzione di Carlo Chatrian che a detta di tutti sarà riconfermato per il futuro?
Cominciamo alla Piazza Grande, laddove si gioca la scommessa col pubblico, quest’anno funestata dalla meteo poco favorevole alle proiezioni coi cieli scuri e gli acquazzoni. Anni fa, tanti, diciamo i Novanta della direzione Marco Müller, in Piazza capitava di vedere Straub&Huillet (Lohtrungen!) o Pulp Fiction appena arrivato dal festival di Cannes. Era però diverso per tutti i festival, quelli europei almeno dove sappiamo – lo mostrano la fatica che fanno Cannes e Venezia quest’ultimo con l’obbligo anche della prima mondiale – i distributori ormai dettano legge, e soprattutto col cinema americano è diventato molto difficile, quando non impossibile, portare i film – P.T.Anderson con l’attesissimo Inherent Vice va al New York Film festival, ma in Europa esce a fine anno, e alla major, la Warner, evidentemente non serve una costosa anteprima sul Lido o sulla Croisette o ovunque sia.

C’è poi la questione dei mercati nazionali. Il nostro, per fare un esempio, è molto ostico, ci arriva pochissimo di quanto circola nei festival internazionali, anche quelli grandi, e questo ne condiziona, ovviamente, le possibilità. Il Festival di Locarno non è un festival da red carpet, però i numeri contano, e nella punta, la Piazza Grande, purtroppo non si è immuni da quel passo indietro enorme che segna questo tempo di confusione tra popolare e arte. Dove il primo viene malinteso, come se «pubblico» equivalesse a un abbassamento di qualità o a cercare disperatamente di compiacere non si capisce bene cosa. La selezione della Piazza è modesta, per me non popolare – lo sono i film di Matarazzo di una retrospettiva che è il polo di attrazione del festival – ma nemmeno di gusto, non può esserlo Luc Besson con Lucy (stroncato in patria e fuori) e nemmeno il tedesco televisivo Hin und Weg
La scommessa «artistica» del Festival, se la Piazza è lo spazio della distribuzione – evidente anche dalle date di uscita dei film programmati – si gioca quindi altrove. Concorso, Cineasti del presente, la nuova sezione potenziata quest’anno Signs of life, misticismo per dire delle linee contemporanee degli immaginari. Diciamo che qui, seppure con un indirizzo piuttosto diverso da quello della precedente direzione di Olivier Pere, la scommessa della selezione sembra quella di presentare le nuove tendenze, con detour «inattuali» che di queste sono un po’ i riferimenti, penso a Pedro Costa o Lav Diaz, a Straub fino all’eccentricità di un Vecchiali. Il resto è invece l’attuale, l’aria dei tempi, ciò che unisce il gusto e le aspettative della «famiglia» allargata di curatori o programmer dei festival. Ma: basta essere attuali per declinare una ricerca? Io credo di no. E i dubbi crescono vedendo le scelte del concorso.

Cominciamo, non per nazionalismo, dal film italiano, sul quale si deve aprire una ulteriore parentesi. Il cinema italiano al festival di Locarno, come a quello di Rotterdam, non ama venire. C’è la vicinanza con la Mostra di Venezia, a cui tutti ambiscono, e ora anche col festival di Roma in ogni caso «piazza» più utile. Eppure qui in Ticino, dove si parla italiano, il made in Italy ha un’attenzione speciale. Per i selezionatori perciò avere un film italiano è quasi obbligato, ancora di più poi se il direttore è italiano. Però quest’anno c’era la retrospettiva, è venuto Dario Argento, mito mondiale che non può fare due passi senza essere fermato dai suoi fan, c’è stato in Piazza il viscontiano Gattopardo restaurato, ma forse non bastava lo stesso. In gara è stato messo Perfidia di Bonifacio Angius, opera seconda del regista trentenne girata nelle periferie di Sassari, che di perfido o perfidamente melodrammatico nonostante il titolo non ha nulla.

Piuttosto c’è un concentrato di luoghi comuni del cinema italiano che sembrano emergere dal passato: l’uso delle musiche tutto sbagliato, gli interni che se la storia è triste devono essere per forza squallidi, e se uno è piccolo borghese deve avere il centrino in mezzo al tavolo. Gli amici al bar, giovinastri nulla facenti del paese che invidiano la macchina nuova di quello tra loro più fortunato ma non fanno nulla da mattina a sera. L’andata con la mignotta di formazione per svezzare l’amico «scemo» tutti in gruppo. L’amore impossibile, i fantasmi dei genitori, e soprattutto una narrazione che non diviene mai stile visivo.

L’assunto è semplice: un figlio deve uccidere il padre, non è certo nuovo, anzi, ma non è questo che conta visto che, lo sappiamo, le storie sono sempre le stesse quello che cambia è come le raccontiamo. Il figlio ha trentacinque anni, nessun interesse, nessun sussulto. Non lavora, e alle domande del padre non sa dare risposta. Cosa ti piace nella vita chiede con insistenza l’uomo al giovane: silenzio.

Il vecchio è volgare, meschino, la moglie l’ha appena seppellita e le rimprovera di essersi chiusa nell’apatia, di essere diventata vecchia troppo presto per quel suo modo di stare al mondo fatto solo di rinuncia e di chiesa. Lui la radio del predicatore l’ascolta perché lo rilassa. Il figlio invece ci crede a suo modo a Gesù e spera che a essere buoni si viene ricompensati. Però non funziona così scopre pian piano e allora è meglio essere cattivi che Gesù si accorge di te …

Padre e figlio. Il primo che dovresti odiare di fronte alla piattezza del figlio finisce che se non ti sta proprio simpatico in fondo ne comprendi gli sbuffi. Angius presenta il figlio come una sorta di icona generazionale, di una generazione presente soffocata da crisi e perdite di tutto (?) che non si accende a nulla, che non ha nulla, ecc. Il personaggio di Angeli però sembra più uno problematico psicologicamente, la cui implosione rispetto al mondo non ne fa un Forrest Gump e tantomeno un segno metafisico. La metafora del padre/figlio – riflessa nei dialoghi della radio religiosa – viene spostata sul piano della concretezza, sul passaggio dal bene al male. Ma l’attaccarsi alla scrittura non compie mai il salto verso il cinema, verso una spiritualità che rimane invece, come molto altro, programmatica. Il gesto di ribellione manca perché non risponde a scelte visuali, a un gesto del filmare che sappia restituirne la portata.

Potremmo definirlo un altro obbligato ma sappiamo che non è così perché Fernand Melgar è uno dei registi che Carlo Chatrian ha sempre sostenuto. Eccolo perciò di nuovo in concorso, due anni dopo quel Vol special che tanto fece indignare l’allora presidente della giuria il produttore portoghese Paulo Branco. L’abri di Vol special completa la trilogia dedicata dal regista svizzero di origini marocchine (è nato a Tangeri nel 61) all’immigrazione nel paese che ha votato da poco il tetto numerico per gli immigrati (in Ticino anche contro i frontalieri italiani). L’abri racconta di migranti senza permesso di soggiorno, Rom o africani, che dormono per strada e ogni sera cercano di entrare nel rifugio del titolo, per avere un letto e un pasto, dormire fuori infatti viene multato e con l’incedere dell’inverno a Losanna, di neve e ghiaccio è sempre più duro.

Il rifugio però contiene solo un certo numero di persone, 50 al massimo, e ogni sera fatti passare prima bimbi, donne, anziani e malati, i responsabili scelgono coloro che entreranno. Caso, simpatia, non c’è un parametro, e così er evitare questa specie di atroce lotteria decidono di adottare una carta/abbonamento che da diritto a 15 ingressi.

Come lo statement letto prima della proiezione da Melgar, anche il suo film provoca quel fastidioso senso di retorica che si avverte quando, parlando dei temi considerati seri – e questo lo è – si deve tenere per forza tutto insieme. Il difetto di Melgar, e quello di non posizionarsi, di non scegliere dove mettersi, nel suo caso dietro alla soglia, rimanendo a filmare l’istituzione. Invece lui sta dentro e fuori, ma dei migranti, oltre a circondarli dell’aura di vittina, scelta che elide ogni conflitto e qualsiasi domanda a noi stessi, non sa mai dare altra misura. Vittime. Che fastidio. La piattezza cinematografica che ne accompagna la posizione consegue. Penso ai migranti che narra Sylvain George la cui presenza diviene necessità di interrogare il cinema, di mettersi in discussione come filmmaker, una scelta politica e poetica. Melgar riposa sul soggetto, che emoziona, indigna e dopo essersene tornati a casa, fa sì che ci si senta sempre un po’ migliori.