Esattamente 30 anni fa, il 2 giugno del 1992, il Regno di Danimarca veniva chiamato alle urne per esprimersi sul trattato di Maastricht. L’affluenza alle urne fu altissima (83.1%) ma, contro tutti i pronostici, a prevalere fu il “nej”(no) con il 50.7%. Dopo trent’anni, ieri, le e i danesi sono stati richiamati alle urne per ridiscutere uno dei 4 punti con i quali rinegoziarono la loro adesione all’Unione europea e, nello specifico, decidere se abolire o mantenere il “forsvarsforbeholdet” (clausola di riserva sulla difesa) ovvero partecipare ai programmi di sicurezza e alle missioni militari di peacekeeping dell’Eu. Secondo gli exit poll, confermati dai primi dati ufficiali, il Sì ha vinto con una maggioranza schiacciante intorno al 70%. La norma di “defense opt-out” faceva parte di quei 4 punti che, a ragione, collocavano la penisola tra i paesi europei più “sovranisti”.

La Danimarca infatti ha la corona danese come moneta nazionale, è esente da ogni politica legale sovranazionale e non deve seguire le regole europee di diritto d’asilo, clausola che le ha permesso diverse volte di sospendere il trattato di Schengen. Il referendum di ieri ha rappresentato, quindi, un’inversione di tendenza a favore dell’Unione europea ed è stato voluto fortemente dalla premier socialdemocratica Mette Frederiksen che ha schierato tutto il suo partito in compagnia della maggioranza dei partiti di centro sinistra e di centro destra, dai liberali ai conservatori passando per i verdi e i Socialistisk Folkeparti (partito popolare socialista) che, insieme a Enhedslisten (l’alleanza rosso verde), rappresenta la sinistra radicale danese. Enhedslisten, nonostante sostenga il governo socialdemocratico in carica, ha fatto una forte campagna per il No. L’argomentazione del fronte del No era che la cooperazione militare con il resto dell’Unione non sarebbe a costo zero per le casse danesi. Ad esempio è stata portata la vicina Svezia che ha investito nel sistema di difesa comunitario 4,2 miliardi di corone (pari a 56,5 milioni di euro). Tema molto sensibile in un paese con un welfare state di tipo scandinavo e molto attento alla spesa pubblica dove l’aumento degli investimenti militari è stato usato come spauracchio per il possibile rischio di tagli ai servizi sociali. La risposta dei sostenitori del Sì ha però sostenuto, per tutto la campagna, la necessità di aumentare la difesa in Europa (e quindi anche la spesa bellica) dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. A più riprese i sostenitori dello “Ja” hanno parlato di un «prima e un dopo 24 febbraio» e i socialdemocratici hanno messo come primo punto della loro campagna referendaria la necessità di «rafforzare la difesa dell’Europa contro Putin perché l’attacco di Putin all’Ucraina è un attacco ai nostri valori fondamentali e alla nostra sicurezza».

La Danimarca, che insieme a Norvegia e Islanda fa già parte della Nato, ha sostenuto tutte le fasi che hanno portato Finlandia e Svezia a chiedere formalmente l’adesione all’Alleanza atlantica ribadendo, insieme agli altri paesi nordici e scandinavi, la necessità di una politica comune di «difesa rafforzata». Il governo della premier socialdemocratica ha inoltre stanziato aiuti umanitari e militari per l’Ucraina in questi mesi, esattamente come il resto dei paesi nordici. Il coinvolgimento nella politica militare dell’Eu ha però anche un segno diverso che parla, soprattutto, della possibilità non solo di una cooperazione militare all’interno dell’Unione ma anche di una produzione bellica continentale, un “asset” al quale la Danimarca sembra essere molto interessata.