Visioni

La dance utopia di Giorgio Moroder

La dance utopia di Giorgio Moroder

Musica «Deja vu» segna il ritorno discografico a trent’anni dall’ultimo album dell'artista alto-atesino, produttore, autore di colonne sonore di successo e padrino della disco

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 3 giugno 2015

Per il deus ex machina della disco music – e non solo – Giorgio Moroder sono i vichiani corsi e ricorsi storici a parlare. Fino a due anni fa era a godersi la (doratissima…) pensione tra Ortisei e Los Angeles: «avevo progettato una macchina a 16 cilindri, la Cizeta Moroder, giocavo a golf e qua e là mi dedicavo a comporre. Un pezzo per le olimpiadi di Pechino e anche un nuovo inno italiano quando si era sparsa la voce che volessero cambiarlo… L’ho pure spedito a Berlusconi, gli è piaciuto ma ovviamente non se ne è fatto niente…», poi è arrivata la chiamata dei Daft Punk. E qui si è aperto un mondo, perché sui suoni della disco futurista di Monaco – e su quelli funk di Nile Rodgers, l’altro grande dei ’70 richiamato per l’occasione, il duo francese ha costruito nel 2013 il loro più grande successo discografico, Random access memories. Quattro grammy awards e la dimostrazione che la disco non era affatto morta. E un po’ per scherzo, un paio di dj set, qualche remix (Magic per i Coldplay) e un tributo personalmente curato insieme a maghi della consolle come Afrojack, Hot Chip, Masters at Work intorno ai grandi hit di Donna Summer, è arrivata la proposta della Sony per un disco nuovo di zecca.

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È nato così Deja vu – in uscita il 16 giugno, a trent’anni di distanza dall’ultimo realizzato in coppia con Philip Oakey degli Human League – in cui il produttore alto-atesino si misura con molte voci del pop e dell’Edm (la nuova dance, lo sviluppo contemporaneo della disco) come Britney Spears, Sia, Kylie Minogue, Charlie XCX, Marlene e Matthew Coma. Melodie ultra pop, ritornelli orecchiabili e qualche eco dell’antico sound di Monaco che per buona parte dei settanta ha dominato dance floor e hit parade. E il titolo, Deja vu, intende giocare proprio con il passato mai così presente…
Rispetto ai settanta – però – è diventato molto più difficile mettere insieme un cast cosi variegato: «quando lavoravamo con Donna Summer impiegavamo 3 o 4 settimane e basta – ora sono tutti impegnatissimi e poi fanno tutto da soli. Con Sia ad esempio; le ho consegnato le basi e lei ha scritto il testo, ci ha inciso la voce e mi ha consegnato il pezzo finito. In realtà io non l’ho mai incontrata. Con Britney c’è stato uno scambio di idee, anzi è lei che mi ha proposto di rifare Tom’s Diner di Susanne Vega…». Però non chiedetegli se si sente il padre dell’Edm: «È un’altra cosa, ora con dj produttori come Avicii c’è anche un riavvicinamento a una forma strutturata di canzone, strofa ritornello. Ma dietro la disco c’era una moda, un movimento, un modo di pensare che ora non vedo, anche se certamente l’Edm è destinato a durare».

A colpirlo in particolare è stato il piglio deciso di Kelis – in Deja vu interpreta Back and Forth -: «ha una bella grinta e una gran voce r’n’b che mi ha ricordato Donna Summer». La diva di Boston. Quando si incontrarono a Monaco lei si era trasferita dagli States a cercar fortuna, sbarcando il lunario attraverso ruoli in allestimenti di musical celebri come Hair o come backing vocalist. La città tedesca era al centro della nascente euro disco, una scuola dal sound inconfondibile dove fondamentale era la mano dei produttori, mentre a Francoforte si muovevano parallelamente Frank Farian con i Boney M e Michael Kunze con le Silver Convention, progetti con le loro sotto storie fatte di volti e corpi da mostrare sul palcoscenico mentre le voci erano create in sala di registrazione da altri vocalist… . «In Germania – sottolinea Moroder – eravamo in tanti a usare i sintetizzatori, il sound con i violini ha dato il via al cosiddetto Munich Sound. Una volta trovata la formula l’abbiamo perfezionata».

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Già, il guru della disco tende a sminuire i propri meriti, ma in realtà se digiti il suo nome su Google, si apre un mondo fatto di produzioni, colonne sonore, collaborazioni, citazioni con nomi come Bowie, Mercury, Chaka Khan, Japan ma anche un innovativo progetto dada disco con gli Sparks. Per alcuni è l’anello di congiunzione fra le sperimentazioni di John Cage, la ricerca futuristica dei Kraftwerk associata ai 4/4 della disco e il lavoro di cinque anni con Donna Summer (scomparsa nel maggio 2012) è lì a dimostrarlo. Come nel classico I feel love, sei minuti di estasi elettronica che girano intorno al falsetto sensuale della disco queen: «Quel pezzo nasceva intorno a un album I remember yesterday (1977) in cui insieme a Donna e Pete (Bellotte, il paroliere inglese la terza firma che ha siglato quasi tutti i classici di quel periodo, ndr) ci siamo divertiti a mettere insieme epoche e stili diversi riletti in un climax disco».

I feel love rappresentava il momento futurista, il sintetizzatore la sua incarnazione: «Non era semplice lavorare con i primi synth perché non era possibile, come oggi, avere loop e basi pronte. Ogni strumento aveva un trigger, un clic che faceva muovere la macchina.». I cinque anni con Donna sono stati una escalation continua a base di record frantumati in serie, numeri uno, milioni di copie vendute e decine di Grammy Award. Una storia dai risvolti e aneddoti, come quello relativo al duetto fra Donna e Barbra Streisand (No more tears, 1979). Scintille fra dive?: «Diciamo così: avere due stelle di quel calibro in sala di registrazione non era semplice. Eravamo due produttori, io per Donna e Gary Klein per Barbra. Alla fine ci siamo divisi le parti e quando Donna entrava a incidere usciva Barbra. E viceversa…».

Trovare un nuovo sound per il futuro non è semplice, lui ci scherza anche nell’album giocando con la sua età anagrafica – 74 anni – nel titolo di un pezzo: 74 Is The New 24: «Mi capita di ritrovare spesso in alcune colonne sonore riferimenti a cose che ho fatto in passato. Quando ho ascoltato Drive di Cliff Martinez e la colonna sonora di Social Network di Trent Reznor – scherza – mi son detto: e questo dove l’ho già sentito?». E a proposito di colonne sonore – un altro segmento fondamentale nella sua biografia artistica – il rapporto con Hollywood negli ottanta partorisce successi a raffica, il suo tocco da Re Mida si sposta dalle discoteche alle sale cinematografiche: «Lavoravo molto sulle canzoni, il pezzo doveva funzionare con le immagini. Mi mettevo al pianoforte e componevo. Poi facevo un demo e mi confrontavo con il regista e con il produttore. Poi si sa bisogna anche essere fortunati; Debbie Harry in Call me era perfetta per raccontare il gigolo Richard Gere…».

Il restauro di Metropolis – il classico muto di Fritz Lang del 1927 – è un passo avanti per Moroder; riprende il film, lo colora qua e là e, soprattutto, crea una colonna sonora ex novo. «L’idea- spiega – mi era venuta vedendo l’operazione fatta da Francis Ford Coppola sul Napoleon di Abel Gance. Mi era piaciuta molto anche se io ho pensato sin dall’inizio di concentrarmi su una colonna sonora moderna. Ho comprato i diritti e mi sono messo alla ricerca di buone copie del film. Mi interessava far riscoprire ai giovani i capolavori del muto: alcuni critici lo hanno apprezzato, altri sono stati cattivissimi…». Accanto a Deja vu – supportato da un personale dj set che in estate passerà anche in Italia, il 24 luglio a Villa Ada a Roma e al Market Sound di Milano il giorno dopo, per Moroder sono molte le collaborazioni in fieri nei prossimi mesi: «Ci sono alcune cose in ballo, Lana Del Rey, Lady Gaga, Chris Martin e Pharrell Williams… Ma devo trovare il tempo».

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