Cultura

La cura della catastrofe

La cura della catastrofeShigeru Ban

Architettura Shigeru Ban, un ritratto del giapponese premio Pritzker che passò dal rugby alle costruzioni per le emergenze, realizzando case, teatri e ponti con cartone, tubi, stoffe e altri materiali poveri

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 27 marzo 2014

A lungo indeciso tra il rugby e le arti Shigeru Ban prese la decisione finale quando perse malamente la sua prima partita da titolare nella serie A giapponese. Allora decise di lasciar perdere la Waseda University, fortissima nel rugby e di iscriversi alla Tokyo University per studiare architettura. Apprezziamo il lavoro di Shigeru Ban e lo ringraziamo di non aver scelto il rugby da almeno vent’anni: oggi possiamo confermare una volta per tutte che fece la scelta giusta. Infatti, da un paio di giorni è il trentacinquesimo Pritzker Laureate, titolare della massima onorificenza nel mondo dell’architettura.

Shigeru Ban è un progettista molto particolare. Educato, come abbiamo visto, a Tokyo e poi in due scuole americane molto «di tendenza», la Sci Arch di Los Angeles e la newyorchese Cooper Union, si è costruito fin da subito un percorsoassai individuale. Il suo lavoro è memore della ricchezza della tradizione modernista giapponese, ma ha, allo stesso tempo, un carattere più rude e immediato, influenzato forse della passione per il rugby e per i valori molto poco glam che caratterizzano quello sport: lealtà , coraggio, collaborazione, molta voglia di sporcarsi le mani (magari di fango). E le mani Shigeru Ban se le è sporcate spesso, specializzandosi da subito in architetture per l’emergenza e accorrendo a sperimentarle e metterle a disposizione ogni volta che i disastri le rendevano davvero necessarie: Kobe, Rwanda, Cina, India, Haiti, L’Aquila, Onegawa.

La necessità di costruire velocemente a prezzi stracciati ha stimolato nel progettista nato a Tokyo nel 1957 una ricerca radicale e inusuale sui materiali e le tecniche di costruzione: carta, tubi di cartone, legni poveri, container, stoffe. Questa strana idea di costruzione leggera e «da montare» ha fatto da elemento di connessione tra i suoi lavori emergenziali e quelli di carattere più professionale, come la splendida serie di ville e case minime realizzate in Giappone dagli anni novanta in poi. La prima ad arrivare sui nostri tavoli, grazie a un servizio su Casabella fu la casa Curtain wall del ’95, dove in sostanza non c’era differenza tra le tende e la casa stessa.

Dopo molti altri progetti di successo oggi Shigeru Ban è, a modo suo, una star consolidata, con atelier a Tokyo, New York e Parigi. Ha avuto per sei anni uno studio aperto sul tetto del Beaubourg, ha edifici in costruzione in diverse parti del mondo, ha vinto decine di premi, ha insegnato a Harvard, Cornell e in molte altre scuole. Nonostante questo il suo lavoro non abbandona la natura povera e sperimentale delle opere più giovanili, e il suo impegno rimane alto, come si è visto in occasione dello tsunami giapponese o del terremoto dell’Aquila. Semmai negli edifici maggiori il metodo da bricoleur di Ban tende a evolvere verso una specie di monumentalità domestica e inusuale, con intrecci barocchi di tubi di cartone e nervature quasi floreali, come si vede nel Centre Pompidou di Metz e nella Golf Club House coreana.

Guardando giornali e agenzie l’impressione è che molti interpretino questo premio a Shigeru Ban come la conferma di uno «spirito del tempo» ormai ostile alle archistar e all’iperlusso architettonico. Certamente i tre ultimi premi – Wang Shu, Souto de Moura e questo – danno l’impressione di voler celebrare ricerche più appartate e sensibili al senso delle crisi (economica, ecologica, espressiva) che attraversiamo. Ma col Pritzker non è mai detto, basterebbe una vittoria a Steven Holl o a Peter Eisenman – due che in qualche modo se lo aspettano – nel 2015 per smentire la tendenza.

Più interessante forse notare che si tratta della quarta volta in cinque anni che il premio va a uno studio asiatico. E che per la terza volta, sempre nelle ultime cinque, va a un giapponese (Sanaa, Toyo Ito, Shigeru Ban, che si aggiungono a Tange e Maki). Forse qui possiamo trovare un’argomentazione un po’ più sottile. Vale a dire che nell’epoca in cui le archistar più acclamate costruiscono edifici spettacolari e multimiliardari, nel lontano Oriente il Pritzker premia architetti che vengono da quei paesi e che in lavorano spesso a una scala di versa, con un’attenzione maggiore al valore sociale e comunitario dell’architettura.

Questa, con tutta la volubilità di giurie che cambiano quasi ogni anno, potrebbe essere una lettura politica della scelta dell’edizione 2014.

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