La cura che cambia il futuro
È Più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Così scriveva il filosofo Mark Fisher, rendendo palese una contraddizione fondamentale che attraversa il tempo presente, nel quale, da una parte, l’espandersi della guerra, l’estensione della crisi eco-climatica, l’aumento della diseguaglianza sociale e l’espropriazione di democrazia stanno consumando rapidamente il futuro di tutte e tutti; dall’altra, resta preponderante la convinzione che l’insieme di queste crisi non abbia alcuna pregnanza «sistemica», ma che, al contrario, saranno ancora una volta il mercato e le innovazioni tecnologiche (questa volta green e digital) a rimettere il mondo sui giusti binari.
«Non è possibile risolvere i problemi utilizzando lo stesso modello di pensiero che li ha creati» diceva Albert Einstein, chiarendo come il problema non sia solo rimettere il mondo sui giusti binari, ma porre radicalmente in discussione la direzione verso la quale quei binari portano. Ciò che oggi sembra mancare non sono tanto le lotte, le vertenze, le pratiche che suggeriscano nuove modalità di organizzare le relazioni sociali, bensì la fiducia in un orizzonte di cambiamento generale, fuori e oltre la dimensione capitalistica.
È proprio su questo terreno che vanno invece avviate due rivoluzioni culturali. La prima serve a rovesciare la «cosmogonia» della narrazione liberista, che considera l’economia come l’universo dentro il quale tutto accade, la società come un luogo unicamente deputato all’estrazione di valore, la natura come serbatoio esterno da cui estrarre beni all’infinito.
L’inversione di rotta deve al contrario affermare come sia la natura l’universo dentro il quale tutto accade, la società sia il luogo dove le persone decidono come organizzare la vita comune e l’economia torni ad essere semplicemente il luogo dentro il quale la società determina come produrre e scambiarsi beni e servizi. La seconda rivoluzione culturale serve a rovesciare l’ideologia liberista dell’autonomia dell’individuo.
La redazione consiglia:
Giornalisti morti, scomparsi, embeddedUna narrazione che esalta l’indipendenza e che favoleggia dell’uomo artefice del proprio destino e dell’uomo «che non deve chiedere mai». Uomo non a caso, verrebbe da dire. Perché la vita reale non è fatta di indipendenza, bensì di relazione.
È dunque il paradigma della cura – di sé, dell’altra, dell’altro, del vivente, del pianeta – quello su cui può essere riorganizzata una società capace di futuro e radicalmente alternativa a quella attuale, basata sul paradigma del profitto. Si tratta di ripensare un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dal «prendersi cura di» come riconoscimento della vulnerabilità dell’esistenza e dell’interdipendenza fra le persone e fra queste e la natura dentro la quale sono immerse. E si tratta del «prendersi cura con» come nuovo fondamento della relazione sociale e base di una nuova democrazia.
Forse è proprio il paradigma della cura così inteso a poter diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: sia perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra, sia perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una nuova società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e diseguale.
Approfondiremo queste riflessioni nell’Università di Attac Italia, che si terrà a Cecina Mare (in provincia di Livorno) il 13-15 settembre prossimi.
Lo faremo con Marco Bersani, Federica D’Alessio, Maria Francesca De Tullio, Elena Gerebizza, Clara Mattei, Lara Monticelli, Beatrice Negro, Marco Rovelli, Stefano Risso, Marco Schiaffino, Michela Tuozzo, Alessandro Volpi.
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