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La «cujecàra» al mercato non è più anonima

La «cujecàra» al mercato non è più anonima«La fioraia di Sarajevo», disegni di Sonia Maria Luce Possentini

Letteratura ragazzi Per Orecchio Acerbo, «La fioraia di Sarajevo» di Mario Boccia, con le illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 24 luglio 2021

Un albo illustrato in cui l’io narrante e autore Mario Boccia – fotoreporter, collaboratore e inviato de il manifesto – non compare mai. Questa volta ha lasciato la macchina fotografica per narrare una storia con le parole e nelle tavole illustrate lui si vede sempre e solo di spalle: così, anche in questo caso, è comunque il suo sguardo che tesse il racconto, lasciando che l’occhio che legge resti assolutamente libero di vagabondare, riflettere e tentare di comprendere l’incomprensibile della guerra. E le illustrazioni, dense di colori, di volti e di fiori, di Sonia Maria Luce Possentini, restituiscono come in uno specchio la vicenda dell’incontro raccontato in La fioraia di Sarajevo (edito da Orecchio acerbo, pp. 40, euro 16) . «Ma un fiore è serbo, croato o musulmano?», si domanda Boccia in conclusione del racconto ma, in realtà, comincia tutto «un giorno di febbraio del 1992, nel mercato di Bascarsija, scrive l’autore.
Il mercato è l’anima di una città, luogo di acquisti di cibo e di vestiti ma anche teatro di incontri, di scambi di fiori e di sguardi. È così che Boccia incontrò una venditrice di fiori. La donna aveva uno sguardo forte e magnetico – restituito anche dai disegni di Possentini – e il fotografo le rivolse «la domanda più stupida, chiedendole quale fosse la sua etnia. Mi rispose subito: ’Sono nata a Sarajevo’. Credendo di essere furbo, le chiesi quale fosse il suo nome. E lei mi disse qualcosa che annotai su un foglietto». Solo dopo scoprirà che cujecàra significa fioraia, «avevo ricevuto la prima lezione».

La fioraia senza nome di Sarajevo – uscita dall’anonimato grazie al racconto di Boccia – si sottraeva alle divisioni etniche e religiose imposte dalla guerra. Diceva semplicemente no a chi voleva toglierle la libertà di dirsi cittadina di Sarajevo per incollarle addosso appartenenze che non le appartenevano.
Passa il tempo e Boccia torna al mercato di Bascarsija. La ritrova: «Era dimagrita molto, come i fiori che vendeva. Quelli non erano più fiori veri ma piccoli mazzetti di fiori di carta…Trovavo sorprendente che lei fosse lì a venderli, ma anche che qualcuno potesse pensare di comprarli».

I fiori di carta sono spesso patrimonio dei poveri, di chi deve reinventarsi un mestiere, di coloro che girano il mondo con poco bagaglio. Passano ancora gli anni, Boccia torna a Sarajevo, segue i 1395 giorni dell’assedio della città, quattro anni. Manca il pane, l’acqua, le medicine e l’elettricità ma, sempre più smagrita, la fioraia resta al suo posto al mercato a vendere fiori di carta, di grande bellezza. A un suo ritorno però il banco è occupato da altri; di lei non c’è traccia. I cartelli che campeggiano in città – «pazi snajper – attenzione ai cecchini» – non sono evidentemente bastati a proteggerla.
«Seconda lezione – commenta l’autore – se non lasci alla guerra il potere di cambiare la tua identità e il tuo ruolo, allora hai vinto. Se muori, almeno sei rimasta quella che hai scelto di essere, perché l’identità è una scelta, non una casualità anagrafica, e sei riuscita a difenderla».

Così ha fatto la fioraia di Sarajevo, città simbolo per secoli di una convivenza pacifica di religioni etnie e culture; dove moschee, sinagoghe, chiese ortodosse e chiese cattoliche erano costruite una accanto all’altra. Prima che la guerra volesse che ciascuno diventasse una cosa sola, ma dove, costretta a scegliere, la fioraia di Boccia dice di sé solo che è nata a Sarajevo. E «solo a Sarajevo – scrive Boccia nelle righe che concludono – morirono 11.541 persone. In maggioranza civili e, tra loro, più di mille bambini».
«La storia che avete letto – conclude – è accaduta in una città uguale alle nostre e da cui ci separa un braccio di mare: Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina. Il 6 aprile del 1992, a dieci mesi dallo scoppio della guerra nell’ex-Jugoslavia, la città fu aggredita e assediata».
L’anonima fioraia di Sarajevo racconta a bambini, ragazzi e adulti, il senso potente dell’autodeterminazione di un’identità che fugge l’imposizione etnica, religiosa e sceglie un’altra idea di cittadinanza e di umanità. Una storia degli anni Novanta terribilmente attuale.

 

SCHEDA

Prime letture

Per conoscere un personaggio è necessario – sostiene Chicca Cosentino ne La folle corsa del piccolo Achab, Torri del Vento edizioni, 16 euro – saperne l’infanzia, «se sapremo com’erano bambini – così il testo – diremo, allora di averli conosciuti». L’albo, con le bellissime illustrazioni di Roberto Speziale, indaga così sui primi anni del piccolo Achab. Ma Achab – non ancora capitano – ha negli occhi «fiori e lampi, il dolore presto è aguzzo, i suoi passi sono inciampi»: la sua mamma è una piccola isola e il suo papà è il mare. Unica amica che lo accompagna è la sua ombra. Achab e la sua ombra hanno mille pensieri e lui tiene sempre con sé una lampada per non lasciarla andare via. Achab stringe così l’ombra per non cedere allo spavento ed è proprio in questa attenzione alla paura, ai pensieri bui dei più piccoli, che il libro offre il suo contributo più originale: «L’ombra era la sua parte migliore: dei sogni e i desideri il motore». Solo allora la storia di Achab diviene davvero una grande epopea di mare e di ricerca ma, svincolandosi dall’originale, per Cosentino e Speziale «la balena lunare conserva la luce, la tiene con sé e nuota veloce».
Un volume da leggere ad alta voce per cercare le rime sghembe e quelle saltate in un libro che promette il viaggio come destino. (l. ta.)

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